Niccol Machiavelli
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
Libro II
Introduzione
Laudano sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente, gli antichi tempi, e gli presenti accusano: ed in modo sono delle cose passate partigiani, che non solamente celebrano quelle etadi che da loro sono state, per la memoria che ne hanno lasciata gli scrittori, conosciute; ma quelle ancora che, sendo gi vecchi, si ricordano nella loro giovanezza avere vedute. E quando questa loro opinione sia falsa, come il pi delle volte , mi persuado varie essere le cagioni che a questo inganno gli conducono. E la prima credo sia, che delle cose antiche non s'intenda al tutto la verit; e che di quelle il pi delle volte si nasconda quelle cose che recherebbono a quelli tempi infamia; e quelle altre che possano partorire loro gloria, si rendino magnifiche ed amplissime. Perch il pi degli scrittori in modo alla fortuna de' vincitori ubbidiscano, che, per fare le loro vittorie gloriose, non solamente accrescano quello che da loro virtuosamente operato, ma ancora le azioni de' nimici in modo illustrano, che, qualunque nasce dipoi in qualunque delle due provincie, o nella vittoriosa o nella vinta, ha cagione di maravigliarsi di quegli uomini e di quelli tempi, ed forzato sommamente laudarli ed amarli. Oltra di questo, odiando gli uomini le cose o per timore o per invidia, vengono ad essere spente due potentissime cagioni dell'odio nelle cose passate, non ti potendo quelle offendere, e non ti dando cagione d'invidiarle. Ma al contrario interviene di quelle cose che si maneggiano e veggono; le quali, per la intera cognizione di esse, non ti essendo in alcuna parte nascoste, e conoscendo in quelle insieme con il bene molte altre cose che ti dispiacciono, sei forzato giudicarle alle antiche molto inferiori, ancora che, in verit, le presenti molto pi di quelle di gloria e di fama meritassoro: ragionando, non delle cose pertinenti alle arti, le quali hanno tanta chiarezza in s, che i tempi possono trre o dare loro poco pi gloria che per loro medesime si meritino; ma parlando di quelle pertinenti alla vita e costumi degli uomini, delle quali non se ne veggono s chiari testimoni.
Replico, pertanto, essere vera quella consuetudine del laudare e biasimare soprascritta: ma non essere gi sempre vero che si erri nel farlo. Perch qualche volta necessario che giudichino la verit; perch, essendo le cose umane sempre in moto, o le salgano, o le scendano. E vedesi una citt o una provincia essere ordinata al vivere politico da qualche uomo eccellente, ed, un tempo, per la virt di quello ordinatore, andare sempre in augumento verso il meglio. Chi nasce allora in tale stato, ed ei laudi pi gli antichi tempi che i moderni, s'inganna; ed causato il suo inganno da quelle cose che di sopra si sono dette. Ma coloro che nascano dipoi, in quella citt o provincia, che gli venuto il tempo che la scende verso la parte pi ria, allora non s'ingannano. E pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono, di provincia in provincia: come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variavano dall'uno all'altro per la variazione de' costumi; ma il mondo restava quel medesimo. Solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima allogata la sua virt in Assiria, la colloc in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia ed a Roma; e se dopo lo Imperio romano non seguito Imperio che sia durato, n dove il mondo abbia ritenuta la sua virt insieme, si vede nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de' Franchi, il regno de' Turchi, quel del Soldano; ed oggi i popoli della Magna; e prima quella setta Saracina che fece tante gran cose, ed occup tanto mondo, poich la distrusse lo Imperio romano orientale. In tutte queste provincie, adunque, poich i Romani rovinorno, ed in tutte queste stte stata quella virt, ed ancora in alcuna parte di esse, che si disidera, e che con vera laude si lauda. E chi nasce in quelle, e lauda i tempi passati pi che i presenti, si potrebbe ingannare; ma chi nasce in Italia ed in Grecia, e non sia diventato o in Italia oltramontano o in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi, e laudare gli altri: perch in quelli vi sono assai cose che gli fanno maravigliosi; in questi non cosa alcuna che gli ricomperi da ogni estrema miseria, infamia e vituperio: dove non osservanza di religione, non di leggi, non di milizia; ma sono maculati d'ogni ragione bruttura. E tanto sono questi vizi pi detestabili, quanto ei sono pi in coloro che seggono pro tribunali, comandano a ciascuno, e vogliono essere adorati.
Ma tornando al ragionamento nostro, dico che se il giudicio degli uomini corrotto in giudicare quale sia migliore, o il secolo presente o l'antico, in quelle cose dove per l'antichit e' non ne ha possuto avere perfetta cognizione come egli ha de' suoi tempi; non doverebbe corrompersi ne' vecchi nel giudicare i tempi della giovent e vecchiezza loro avendo quelli e questi equalmente conosciuti e visti. La quale cosa sarebbe vera, se gli uomini per tutti i tempi della lor vita fossero di quel medesimo giudizio, ed avessono quegli medesimi appetiti: ma variando quegli ancora che i tempi non variino, non possono parere agli uomini quelli medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti, altre considerazioni nella vecchiezza, che nella giovent. Perch, mancando gli uomini, quando gl'invecchiano, di forze, e crescendo di giudizio e di prudenza, necessario che quelle cose che in giovent parevano loro sopportabili e buone, rieschino poi, invecchiando, insopportabili e cattive; e dove quegli ne doverrebbono accusare il giudizio loro, ne accusano i tempi. Sendo, oltra di questo, gli appetiti umani insaziabili, perch, avendo, dalla natura, di potere e volere desiderare ogni cosa, e, dalla fortuna, di potere conseguitarne poche; ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane, ed uno fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri; ancora che a fare questo non fussono mossi da alcuna ragionevole cagione. Non so, adunque, se io meriter d'essere numerato tra quelli che si ingannano, se in questi mia discorsi io lauder troppo i tempi degli antichi Romani, e biasimer i nostri. E veramente, se la virt che allora regnava, ed il vizio che ora regna, non fussino pi chiari che il sole andrei col parlare pi rattenuto, dubitando non incorrere in questo inganno di che io accuso alcuni. Ma essendo la cosa s manifesta che ciascuno la vede, sar animoso in dire manifestamente quello che io intender di quelli e di questi tempi; acciocch gli animi de' giovani che questi mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad imitar quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perch gli offizio di uomo buono, quel bene che per la malignit de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocch, sendone molti capaci, alcuno di quelli, pi amato dal Cielo, possa operarlo. Ed avendo ne' discorsi del superior libro, parlato delle diliberazioni fatte da' Romani, pertinenti al di dentro della citt, in questo parleremo di quelle, che 'l Popolo romano fece pertinenti allo augumento dello imperio suo.
Capitolo 1a
Quale fu pi cagione dello imperio che acquistarono i Romani, o la virt, o la fortuna.
Molti hanno avuta opinione, ed in tra' quali Plutarco, gravissimo scrittore, che 'l popolo romano nello acquistare lo imperio fosse pi favorito dalla fortuna che dalla virt. Ed intra le altre ragioni che ne adduce, dice che per confessione di quel popolo si dimostra, quello avere riconosciute dalla fortuna tutte le sue vittorie, avendo quello edificati pi templi alla Fortuna che ad alcuno altro iddio. E pare che a questa opinione si accosti Livio; perch rade volte che facci parlare ad alcuno Romano, dove ei racconti della virt, che non vi aggiunga la fortuna. La qual cosa io non voglio confessare in alcuno modo, n credo ancora si possa sostenere. Perch, se non si trovata mai republica che abbi fatti i profitti che Roma, nato che non si trovata mai republica che sia stata ordinata a potere acquistare come Roma. Perch la virt degli eserciti gli fecero acquistare lo imperio; e l'ordine del procedere, ed il modo suo proprio, e trovato dal suo primo latore delle leggi gli fece mantenere lo acquistato: come di sotto largamente in pi discorsi si narrer. Dicono costoro, che non avere mai accozzate due potentissime guerre in uno medesimo tempo, fu fortuna e non virt del Popolo romano; perch e' non ebbero guerra con i Latini, se non quando egli ebbero, non tanto battuti i Sanniti, quanto che la guerra fu fatta da' Romani in defensione di quelli; non combatterono con i Toscani, se prima non ebbero soggiogati i Latini, ed enervati con le spesse rotte quasi in tutto i Sanniti: che se due di queste potenze intere si fossero, quando erano fresche, accozzate insieme, senza dubbio si pu facilmente conietturare che ne sarebbe seguito la rovina della romana Republica. Ma, comunque questa cosa nascesse, mai non intervenne che eglino avessero due potentissime guerre in uno medesimo tempo: anzi parve sempre che, o, nel nascere dell'una, l'altra si spegnesse, o nello spegnersi dell'una, l'altra nascesse. Il che si pu facilmente vedere per l'ordine delle guerre fatte da loro: perch, lasciando stare quelle che fecero prima che Roma fosse presa dai Franciosi, si vede che, mentre che combatterno con gli Equi e con i Volsci, mai, mentre che questi popoli furono potenti, non scesero contro di loro altre genti. Domi costoro, nacque la guerra contro a' Sanniti; e bench, innanzi che finisse tale guerra, i popoli latini si ribellassero da' Romani; nondimeno, quando tale ribellione segu, i Sanniti erano in lega con Roma, e con i loro eserciti aiutarono i Romani domare la insolenzia latina. I quali domi, risurse la guerra di Sannio. Battute per molte rotte date a' Sanniti le loro forze, nacque la guerra de' Toscani; la quale composta, si rilevarono di nuovo i Sanniti per la passata di Pirro in Italia. Il quale come fu ributtato, e rimandato in Grecia, appiccarono la prima guerra con i Cartaginesi: n prima fu tale guerra finita, che tutti i Franciosi, e di l e di qua dall'Alpi, congiurarono contro ai Romani; tanto che intra Populonia e Pisa, dove oggi la torre a San Vincenti, furono con massima strage superati. Finita questa guerra, per spazio di venti anni ebbero guerre di non molta importanza; perch non combatterono con altri che con Liguri, e con quel rimanente de' Franciosi che era in Lombardia. E cos stettero tanto che nacque la seconda guerra cartaginese, la quale per sedici anni tenne occupata Italia. Finita questa con massima gloria, nacque la guerra macedonica; la quale finita, venne quella d'Antioco e d'Asia. Dopo la quale vittoria, non rest in tutto il mondo n principe n republica che, di per s, o tutti insieme, che si potessero opporre alle forze romane.
Ma innanzi a quella ultima vittoria chi considerer bene l'ordine di queste guerre, ed il modo del procedere loro, vi vedr dentro mescolate con la fortuna una virt e prudenza grandissima. Talch, chi esaminassi la cagione di tale fortuna, la ritroverebbe facilmente: perch gli cosa certissima, che come uno principe e uno popolo viene in tanta riputazione, che ciascuno principe e popolo vicino abbia di per s paura ad assaltarlo e ne tema, sempre interverr che ciascuno d'essi mai lo assalter, se non necessitato; in modo che e' sar quasi come nella elezione di quel potente, fare guerra con quale di quei sua vicini gli parr, e gli altri con la sua industria quietare. E' quali, parte rispetto alla potenza sua, parte ingannati da que' modi ch'egli terr per adormentargli, si quietano facilmente; quegli altri potenti, che sono discosto e che non hanno commerzio seco, curano la cosa come cosa longinqua, e che non appartenga a loro. Nel quale errore stanno tanto che questo incendio venga loro presso: il quale venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se non con le forze proprie le quali dipoi non bastono, sendo colui diventato potentissimo. Io voglio lasciare andare come i Sanniti stettero a vedere vincere dal Popolo romano i Volsci e gli Equi; e per non essere troppo prolisso, mi far da' Cartaginesi: i quali erano di gran potenza e di grande estimazione, quando i Romani combattevano co' Sanniti e con i Toscani; perch di gi tenevano tutta l'Africa, tenevano la Sardigna e la Sicilia, avevano dominio in parte della Spagna. La quale potenza loro, insieme con lo essere discosto ne' confini dal popolo romano, fece che non pensarono mai di assaltare quello, n di soccorrere i Sanniti ed i Toscani: anzi fecero come si fa nelle cose che crescano pi tosto in loro favore, collegandosi con quegli e cercando l'amicizia loro. N si avviddono prima dello errore fatto, che i Romani, domi tutti i popoli mezzi in fra loro ed i Cartaginesi, cominciarono a combattere insieme dello imperio di Sicilia e di Spagna. Intervenne questo medesimo a' Franciosi che a' Cartaginesi, e cos a Filippo re de' Macedoni, e a Antioco; e ciascuno di loro credea, mentre che il Popolo romano era occupato con l'altro, che quello altro lo superasse, ed essere a tempo, o con pace o con guerra, difendersi da lui. In modo che io credo che la fortuna che ebbero in questa parte i Romani, l'arebbono tutti quegli principi che procedessono come i Romani, e fossero della medesima virt che loro.
Sarebbeci da mostrare a questo proposito il modo tenuto dal Popolo romano nello entrare nelle provincie d'altrui, se nel nostro trattato de' Principati non ne avessimo parlato a lungo: perch, in quello, questa materia diffusamente disputata. Dir solo questo lievemente, come sempre s'ingegnarono avere nelle provincie nuove qualche amico che fussi scala o porta a salirvi o entrarvi, o mezzo a tenerla: come si vede che per il mezzo de' Capuani entrarono in Sannio, de' Camertini in Toscana, de' Mamertini in Sicilia, de' Saguntini in Spagna, di Massinissa in Africa, degli Etoli in Grecia, di Eumene ed altri principi in Asia, de' Massiliensi e delli Edui in Francia. E cos non mancorono mai di simili appoggi, per potere facilitare le imprese loro, e nello acquistare le provincie e nel tenerle. Il che quegli popoli che osserveranno, vedranno avere meno bisogno della fortuna, che quelli che ne saranno non buoni osservatori. E perch ciascuno possa meglio conoscere, quanto possa pi la virt che la fortuna loro ad acquistare quello imperio, noi discorrereno, nel seguente capitolo, di che qualit furono quelli popoli con e' quali egli ebbero a combattere, e quanto erano ostinati a difendere la loro libert.
Capitolo 2
Con quali popoli i Romani ebbero a combattere,
e come ostinatamente quegli difendevono la loro libert.
Nessuna cosa fe' pi faticoso a' Romani superare i popoli d'intorno e parte delle provincie discosto, quanto lo amore che in quelli tempi molti popoli avevano alla libert, la quale tanto ostinatamente difendevano, che mai se non da una eccessiva virt sarebbono stati soggiogati. Perch, per molti esempli si conosce a quali pericoli si mettessono per mantenere o ricuperare quella; quali vendette ei facessono contro a coloro che l'avessero loro occupata. Conoscesi ancora nella lezione delle istorie, quali danni i popoli e le citt ricevino per la servit. E dove in questi tempi ci solo una provincia, la quale si possa dire che abbi in s citt libere, ne' tempi antichi in tutte le provincie erano assai popoli liberissimi. Vedesi come in quelli tempi de' quali noi parliamo al presente, in Italia, dall'Alpi che dividono ora la Toscana da Lombardia, infino alla punta d'Italia, erano tutti popoli liberi; come erano i Toscani, i Romani, i Sanniti, e molti altri popoli che in quel resto d'Italia abitavano. N si ragiona mai che vi fusse alcuno re, fuora di quegli che regnorono in Roma, e Porsenna re di Toscana; la stirpe del quale come si estinguesse, non ne parla la istoria. Ma si vede bene, come in quegli tempi che i Romani andarono a campo a Veio, la Toscana era libera: e tanto si godeva della sua libert, e tanto odiava il nome del principe, che, avendo fatto i Veienti per loro difensione uno re in Veio, e domandando aiuto a' Toscani contro a' Romani, quegli, dopo molte consulte fatte, deliberarono di non dare aiuto a' Veienti, infino a tanto che vivessono sotto il re; giudicando non essere bene difendere la patria di coloro che l'avevano di gi sottomessa a altrui. E facil cosa conoscere donde nasca ne' popoli questa affezione del vivere libero; perch si vede per esperienza, le cittadi non avere mai ampliato n di dominio n di ricchezza, se non mentre sono state in libert. E veramente maravigliosa cosa a considerare, a quanta grandezza venne Atene per spazio di cento anni, poich la si liber dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra tutto maravigliosissima a considerare a quanta grandezza venne Roma, poich la si liber da' suoi Re. La ragione facile a intendere; perch non il bene particulare, ma il bene comune quello che fa grandi le citt. E senza dubbio, questo bene comune non osservato se non nelle republiche; perch tutto quello che fa a proposito suo, si esequisce; e quantunque e' torni in danno di questo o di quello privato, e' sono tanti quegli per chi detto bene fa, che lo possono tirare innanzi contro alla disposizione di quegli pochi che ne fussono oppressi. Al contrario interviene quando vi uno principe; dove il pi delle volte quello che fa per lui, offende la citt; e quello che fa per la citt, offende lui. Dimodoch, subito che nasce una tirannide sopra uno vivere libero, il manco male che ne resulti a quelle citt non andare pi innanzi, n crescere pi in potenza o in ricchezze; ma il pi delle volte, anzi sempre, interviene loro, che le tornano indietro. E se la sorte facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso il quale per animo e per virt d'arme ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna utilit a quella republica, ma a lui proprio: perch e' non pu onorare nessuno di quegli cittadini che siano valenti e buoni, che egli tiranneggia, non volendo avere ad avere sospetto di loro. Non pu ancora le citt che esso acquista, sottometterle o farle tributarie a quella citt di che egli tiranno: perch il farla potente non fa per lui; ma per lui fa tenere lo stato disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna provincia riconosca lui. Talch, de' suoi acquisti, solo egli ne profitta, e non la sua patria. E chi volessi confermare questa opinione con infinite altre ragioni, legga Senofonte nel suo trattato che fa De tyrannide. Non maraviglia, adunque, che gli antichi popoli con tanto odio perseguitassono i tiranni ed amassino il vivere libero, e che il nome della libert fusse tanto stimato da loro: come intervenne quando Girolamo, nipote di Ierone siracusano, fu morto in Siracusa, che, venendo le novelle della sua morte in nel suo esercito, che non era molto lontano da Siracusa, cominci prima a tumultuare, e pigliare l'armi contro agli ucciditori di quello; ma come ei sent che in Siracusa si gridava libert, allettato da quel nome, si quiet tutto, pose gi l'ira, contro a' tirannicidi, e pens come in quella citt si potessi ordinare uno vivere libero. Non maraviglia ancora, che e' popoli faccino vendette istraordinarie contro a quegli che gli hanno occupata la libert. Di che ci sono stati assai esempli, de' quali ne intendo referire solo uno, seguito in Corcira, citt di Grecia, ne' tempi della guerra peloponnesiaca; dove, sendo divisa quella provincia in due parti, delle quali l'una seguitava gli Ateniesi l'altra gli Spartani, ne nasceva che di molte citt, che erano infra loro divise, l'una parte seguiva l'amicizia di Sparta, l'altra di Atene: ed essendo occorso che nella detta citt prevalessono i nobili, e togliessono la libert al popolo, i popolari per mezzo degli Ateniesi ripresero le forze, e, posto le mani addosso a tutta la Nobilit, gli rinchiusero in una prigione capace di tutti loro; donde gli traevono a otto o dieci per volta, sotto titolo di mandargli in esilio in diverse parti, e quegli con molti crudeli esempli facevano morire. Di che sendosi, quelli che restavano, accorti, deliberarono in quanto era a loro possibile, fuggire quella morte ignominiosa: ed armatisi di quello potevano, combattendo con quelli che vi volevano entrare, la entrata della prigione difendevano; di modo che il popolo, a questo romore fatto uno concorso, scoperse la parte superiore di quel luogo, e quegli con quelle rovine suffoc. Seguirono ancora in detta provincia molti altri simili casi orrendi e notabili; talch si vede essere vero che con maggiore impeto si vendica una libert che ti suta tolta, che quella che ti voluta trre.
Pensando dunque donde possa nascere, che, in quegli tempi antichi, i popoli fossero pi amatori della libert che in questi; credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti: la quale credo sia la diversit della educazione nostra dall'antica. Perch, avendoci la nostra religione mostro la verit e la vera via, ci fa stimare meno l'onore del mondo: onde i Gentili, stimandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro pi feroci. Il che si pu considerare da molte loro constituzioni, cominciandosi dalla magnificenza de' sacrifizi loro, alla umilt de' nostri; dove qualche pompa pi delicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Qui non mancava la pompa n la magnificenza delle cerimonie, ma vi si aggiugneva l'azione del sacrificio pieno di sangue e di ferocit, ammazzandovisi moltitudine d'animali; il quale aspetto, sendo terribile, rendeva gli uomini simili a lui. La religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria; come erano capitani di eserciti e principi di republiche. La nostra religione ha glorificato pi gli uomini umili e contemplativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umilt, abiezione, e nel dispregio delle cose umane: quell'altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo, ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire pi che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l'universit degli uomini, per andarne in Paradiso, pensa pi a sopportare le sue battiture che a vendicarle. E bench paia che si sia effeminato il mondo, e disarmato il Cielo, nasce pi sanza dubbio dalla vilt degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l'ozio, e non secondo la virt. Perch, se considerassono come la ci permette la esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi l'amiamo ed onoriamo, e prepariamoci a essere tali che noi la possiamo difendere. Fanno adunque queste educazioni, e s false interpretazioni, che nel mondo non si vede tante republiche quante si vedeva anticamente; n, per consequente, si vede ne' popoli tanto amore alla libert quanto allora: ancora che io creda pi tosto essere cagione di questo, che lo Imperio romano con le sue arme e sua grandezza spense tutte le republiche e tutti e' viveri civili. E bench poi tale Imperio si sia risoluto, non si sono potute le citt ancora rimettere insieme n riordinare alla vita civile, se non in pochissimi luoghi di quello Imperio. Pure, comunque si fusse, i Romani in ogni minima parte del mondo trovarono una congiura di republiche armatissime ed ostinatissime alla difesa della libert loro. Il che mostra che il popolo romano sanza una rara ed estrema virt mai non le arebbe potute superare.
E per darne esemplo di qualche membro, voglio mi basti lo esemplo de' Sanniti: i quali pare cosa mirabile, e Tito Livio lo confessa, che fussero s potenti, e l'arme loro s valide, che potessono infino al tempo di Papirio Cursore consolo, figliuolo del primo Papirio, resistere a' Romani (che fu uno spazio di quarantasei anni), dopo tante rotte, rovine di terre, e tante strage ricevute nel paese loro; massime veduto ora quel paese, dove erano tante cittadi e tanti uomini, essere quasi che disabitato; ed allora vi era tanto ordine e tanta forza, che gli era insuperabile, se da una virt romana non fosse stato assaltato. E facil cosa considerare donde nasceva quello ordine, e donde proceda questo disordine; perch tutto viene dal vivere libero allora, ed ora dal vivere servo. Perch tutte le terre e le provincie che vivono libere in ogni parte, come di sopra dissi, fanno profitti grandissimi. Perch quivi si vede maggiori popoli, per essere e' connubi pi liberi, pi desiderabili dagli uomini: perch ciascuno procrea volentieri quegli figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando che il patrimonio gli sia tolto; e ch'ei conosce non solamente che nascono liberi e non schiavi, ma ch'ei possono mediante la virt loro diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura, e quelle che vengono dalle arti. Perch ciascuno volentieri multiplica in quella cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede, acquistati, potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara pensono a' privati e publici commodi; e l'uno e l'altro viene maravigliosamente a crescere. Il contrario di tutte queste cose segue in quegli paesi che vivono servi; e tanto pi scemono dal consueto bene, quanto pi dura la servit. E di tutte le servit dure, quella durissima che ti sottomette a una republica: l'una, perch la pi durabile, e manco si pu sperare d'uscirne; l'altra, perch il fine della republica enervare ed indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri corpi. Il che non fa uno principe che ti sottometta, quando quel principe non sia qualche principe barbaro, destruttore de' paesi e dissipatore di tutte le civilt degli uomini, come sono i principi orientali. Ma s'egli ha in s ordini umani ed ordinari, il pi delle volte ama le citt sue suggette equalmente, ed a loro lascia l'arti tutte, e quasi tutti gli ordini antichi. Talch, se le non possono crescere come libere, elle non rovinano anche come schiave; intendendosi della servit in quale vengono le citt servendo a un forestiero, perch di quelle d'uno loro cittadino ne parlai di sopra. Chi considerer, adunque, tutto quello che si detto, non si maraviglier della potenza che i Sanniti avevano, sendo liberi, e della debolezza in che e' vennono poi, servendo: e Tito Livio ne fa fede in pi luoghi, e massime nella guerra di Annibale, dove e' mostra che, sendo i Sanniti oppressi da una legione di uomini che era in Nola, mandarono oratori ad Annibale, a pregarlo che gli soccorressi; i quali, nel parlare loro, dissono, che avevano per cento anni combattuto con i Romani con i propri loro soldati e propri loro capitani, e molte volte aveano sostenuto dua eserciti consolari e dua consoli, e che allora a tanta bassezza erano venuti, che non si potevano a pena difendere da una piccola legione romana che era in Nola.
Capitolo 3
Roma divenne gran citt rovinando le citt circunvicine,
e ricevendo i forestieri facilmente a' suoi onori.
"Crescit interea Roma Albae ruinis". Quegli che disegnono che una citt faccia grande imperio, si debbono con ogni industria ingegnare di farla piena di abitatori; perch, sanza questa abbondanza di uomini, mai non riuscir di fare grande una citt. Questo si fa in due modi: per amore e per forza. Per amore, tenendo le vie aperte e sicure a' forestieri che disegnassono venire ad abitare in quella, acciocch ciascuno vi abiti volentieri: per forza, disfacendo le citt vicine, e mandando gli abitatori di quelle ad abitare nella tua citt. Il che fu in tanto osservato da Roma, che, nel tempo del sesto re, in Roma abitavano ottantamila uomini da portare arme. Perch i Romani vollono fare ad uso del buono cultivatore; il quale, perch una pianta ingrossi, e possa produrre e maturare i frutti suoi, gli taglia i primi rami che la mette, acciocch, rimasa quella virt nel piede di quella pianta, possano col tempo nascervi pi verdi e pi fruttiferi. E che questo modo, tenuto per ampliare e fare imperio, fusse necessario e buono lo dimostra lo esemplo di Sparta e di Atene: le quali essendo dua republiche armatissime, ed ordinate di ottime leggi, nondimeno non si condussono alla grandezza dello Imperio romano; e Roma pareva pi tumultuaria, e non tanto bene ordinata come quelle. Di che non se ne pu addurre altra cagione, che la preallegata: perch Roma, per avere ingrossato per quelle due vie il corpo della sua citt, potette di gi mettere in arme dugentottantamila uomini; e Sparta ed Atene non passarono mai ventimila per ciascuna. Il che nacque, non da essere il sito di Roma pi benigno che quello di coloro, ma solamente da diverso modo di procedere. Perch Licurgo, fondatore della republica spartana, considerando nessuna cosa potere pi facilmente risolvere le sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece ogni cosa perch i forestieri non avessono a conversarvi: ed oltre a non gli ricevere ne' matrimoni, alla civilit, ed alle altre conversazioni che fanno convenire gli uomini insieme, ordin che in quella sua republica si spendesse monete di cuoio, per tor via a ciascuno il disiderio di venirvi per portarvi mercanzie, o portarvi alcuna arte; di qualit che quella citt non potette mai ingrossare di abitatori. E perch tutte le azioni nostre imitano la natura, non possibile n naturale che uno pedale sottile sostenga uno ramo grosso. Per una republica piccola non pu occupare citt n regni che sieno pi validi n pi grossi di lei; e, se pure gli occupa, gl'interviene come a quello albero che avesse pi grosso il ramo che il piede, che, sostenendolo con fatica, ogni piccol vento lo fiacca: come si vide che intervenne a Sparta; la quale avendo occupate tutte le citt di Grecia, non prima se gli ribell Tebe, che tutte le altre citt se gli ribellarono, e rimase il pedale solo sanza rami. Il che non potette intervenire a Roma, avendo il pi s grosso, che qualunque ramo poteva facilmente sostenere. Questo modo adunque di procedere, insieme con gli altri che di sotto si diranno, fece Roma grande e potentissima. Il che dimostra Tito Livio in due parole, quando disse: "Crescit interea Roma Albae ruinis".
Capitolo 4
Le republiche hanno tenuti tre modi circa lo ampliare.
Chi ha osservato le antiche istorie, trova come le republiche hanno tenuti tre modi circa lo ampliare. L'uno stato quello che osservarono i Toscani antichi, di essere una lega di pi republiche insieme, dove non sia alcuna che avanzi l'altra n di autorit n di grado; e, nello acquistare, farsi l'altre citt compagne, in simil modo come in questo tempo fanno i Svizzeri, e come ne' tempi antichi fecero in Grecia gli Achei e gli Etoli. E perch i Romani feciono assai guerra co' Toscani, per mostrare meglio le qualit di questo primo modo, mi distender in dare notizia di loro particularmente. In Italia, innanzi allo Imperio romano, furono i Toscani per mare e per terra potentissimi: e bench delle cose loro non ce ne sia particulare istoria, pure c' qualche poco di memoria, e qualche segno della grandezza loro; e si sa come e' mandarono una colonia in su 'l mare di sopra, la quale chiamarono Adria, che fu s nobile, che la dette nome a quel mare che ancora i Latini chiamono Adriatico. Intendesi ancora, come le loro armi furono ubbidite dal Tevere per infino a pi delle Alpi che ora cingono il grosso di Italia; non ostante che, dugento anni innanzi che i Romani crescessono in molte forze, detti Toscani perderono lo imperio di quel paese che oggi si chiama la Lombardia; la quale provincia fu occupata da' Franciosi: i quali, mossi o da necessit o dalla dolcezza dei frutti, e massime del vino vennono in Italia sotto Belloveso loro duca; e rotti e cacciati i provinciali, si posono in quello luogo, dove edificarono di molte cittadi, e quella provincia chiamarono Gallia, dal nome che tenevano allora; la quale tennono fino che da' Romani fussero domi. Vivevono, adunque, i Toscani con quella equalit, e procedevano nello ampliare in quel primo modo che di sopra si dice: e furono dodici citt, tra le quali era Chiusi, Veio, Arezzo, Fiesole, Volterra, e simili: i quali per via di lega governavano lo Imperio loro; n poterono uscire d'Italia con gli acquisti; e di quella ancora rimase intatta gran parte, per le cagioni che di sotto si diranno. L'altro modo farsi compagni: non tanto per che non ti rimanga il grado del comandare, la sedia dello Imperio, ed il titolo delle imprese: il quale modo fu osservato da' Romani. Il terzo modo farsi immediate sudditi, e non compagni; come fecero gli Spartani e gli Ateniesi. De' quali tre modi, questo ultimo al tutto inutile; come si vide ch'ei fu nelle soprascritte due republiche: le quali non rovinarono per altro, se non per avere acquistato quel dominio che le non potevano tenere. Perch, pigliare cura di avere a governare citt con violenza, massime quelle che fussono consuete a vivere libere, una cosa difficile e faticosa. E se tu non sei armato, e grosso d'armi, non le puoi n comandare n reggere. Ed a volere essere cos fatto, necessario farsi compagni che ti aiutino, e ingrossare la tua citt di popolo. E perch queste due citt non fecero n l'uno n l'altro, il modo di procedere loro fu inutile. E perch Roma, la quale nello esemplo del secondo modo, fece l'uno e l'altro, per salse a tanta eccessiva potenza. E perch la stata sola a vivere cos, stata ancora sola a diventare tanto potente: perch, avendosi lei fatti di molti compagni per tutta Italia, i quali in di molte cose con equali leggi vivevano seco; e, dall'altro canto, come di sopra detto, sendosi riserbata sempre la sedia dello Imperio ed il titolo del comandare, questi suoi compagni venivano, che non se ne avvedevano, con le fatiche e con il sangue loro a soggiogare s stessi. Perch, come ei cominciarono a uscire con gli eserciti di Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi suggetti coloro che, per essere consueti a vivere sotto i re, non si curavano di essere suggetti, ed avendo governatori romani, ed essendo stati vinti da eserciti con il titolo romano, non riconoscevano per superiore altro che Roma. Di modo che quegli compagni di Roma che erano in Italia, si trovarono in un tratto cinti da' sudditi romani, ed oppressi da una grossissima citt come era Roma; e quando ei s'avviddono dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi; tanta autorit aveva presa Roma con le provincie esterne, e tanta forza si trovava in seno, avendo la sua citt grossissima ed armatissima. E bench quelli suoi compagni, per vendicarsi delle ingiurie, le congiurassero contro, furono in poco tempo perditori della guerra, peggiorando le loro condizioni; perch, di compagni, diventarono ancora loro sudditi. Questo modo di procedere, come detto, stato solo osservato da' Romani: n pu tenere altro modo una republica che voglia ampliare; perch la esperienza non ce ne ha mostro nessuno pi certo o pi vero.
Il modo preallegato delle leghe, come viverono i Toscani, gli Achei e gli Etoli e come oggi vivono i Svizzeri , dopo a quello de' Romani, il migliore modo; perch, non si potendo con quello ampliare assai, ne sguita due beni; l'uno, che facilmente non ti tiri guerra a dosso; l'altro, che quel tanto che tu pigli, lo tieni facilmente. La cagione del non potere ampliare lo essere una republica disgiunta e posta in varie sedie: il che fa che difficilmente possono consultare e diliberare. Fa, ancora, che non sono desiderosi di dominare: perch, essendo molte comunit a participare di quel dominio, non stimano tanto tale acquisto quanto fa una republica sola, che spera di goderselo tutto. Governonsi, oltra di questo, per concilio, e conviene che sieno pi tardi ad ogni diliberazione, che quelli che abitono drento a uno medesimo cerchio. Vedesi ancora per sperienza, che simile modo di procedere ha un termine fisso, il quale non ci esemplo che mostri che si sia trapassato: e questo di aggiugnere a dodici o quattordici comunit; dipoi, non cercare di andare pi avanti: perch, sendo giunti a grado che pare loro potersi difendere da ciascuno, non cercono maggiore dominio; s perch la necessit non gli stringe di avere pi potenza; s per non conoscere utile negli acquisti, per le cagioni dette di sopra. Perch gli arebbono a fare una delle due cose; o a seguitare di farsi compagni, e questa moltitudine farebbe confusione; o egli arebbono a farsi sudditi, e perch e' veggono in questo difficult, e non molto utile nel tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando e' sono venuti a tanto numero che paia loro vivere sicuri, si voltono a due cose: l'una a ricevere raccomandati, e pigliare protezioni; e per questi mezzi trarre da ogni parte danari, i quali facilmente infra loro si possono distribuire: l'altra militare per altrui, e pigliare soldo da questo e da quel principe che per sue imprese gli solda; come si vede che fanno oggi i Svizzeri, e come si legge che facevano i preallegati. Di che n' testimone Tito Livio, dove dice che, venendo a parlamento Filippo re di Macedonia con Tito Quinzio Flaminio, e ragionando d'accordo alla presenza d'uno pretore degli Etoli, e venendo a parole detto pretore con Filippo, gli fu da quello rimproverato la avarizia e la infidelit dicendo che gli Etoli non si vergognavano militare con uno, e poi mandare loro uomini ancora a servigio del nimico; talch molte volte intra due contrari eserciti si vedevano le insegne di Etolia. Conoscesi, pertanto, come questo modo di procedere per leghe, stato sempre simile, ed ha fatto simili effetti. Vedesi ancora, che quel modo di fare sudditi stato sempre debole, ed avere fatto piccoli profitti; e quando pure egli hanno passato il modo, essere rovinati tosto. E se questo modo di fare sudditi inutile nelle republiche armate, in quelle che sono disarmate inutilissimo: come sono state ne' nostri tempi le republiche d'Italia. Conoscesi, pertanto, essere vero modo quello che tennono i Romani, il quale tanto pi mirabile, quanto e' non ce n'era innanzi a Roma esemplo, e dopo Roma non stato alcuno che gli abbi imitati. E quanto alle leghe, si trovano solo i Svizzeri e la lega di Svezia che gli imita. E, come nel fine di questa materia si dir, tanti ordini osservati da Roma, cos pertinenti alle cose di dentro come a quelle di fuora, non sono ne' presenti nostri tempi non solamente imitati, ma non n' tenuto alcuno conto: giudicandoli alcuni non veri, alcuni impossibili, alcuni non a proposito ed inutili; tanto che, standoci con questa ignoranzia, siamo preda di qualunque ha voluto correre questa provincia. E quando la imitazione de' Romani paresse difficile, non doverrebbe parere cos quella degli antichi Toscani, massime a' presenti Toscani. Perch, se quelli non poterono, per le cagioni dette, fare uno Imperio simile a quel di Roma, poterono acquistare in Italia quella potenza che quel modo del procedere concesse loro. Il che fu, per un gran tempo, sicuro, con somma gloria d'imperio e d'arme, e massime laude di costumi e di religione. La quale potenza e gloria fu prima diminuita da' Franciosi, dipoi spenta da' Romani: e fu tanto spenta, che, ancora che, dumila anni fa, la potenza de' Toscani fusse grande, al presente non ce n' quasi memoria. La quale cosa mi ha fatto pensare donde nasca questa oblivione delle cose: come nel seguente capitolo si discorrer.
Capitolo 5
Che la variazione delle sette e delle lingue, insieme con l'accidente
de' diluvii o della peste, spegne le memorie delle cose.
A quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno, credo che si potesse replicare che, se tanta antichit fusse vera, e' sarebbe ragionevole che ci fussi memoria di pi che cinquemila anni; quando e' non si vedesse come queste memorie de' tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali, parte vengono dagli uomini, parte dal cielo. Quelle che vengono dagli uomini sono le variazioni delle stte e delle lingue. Perch, quando e' surge una setta nuova, cio una religione nuova, il primo studio suo , per darsi riputazione, estinguere la vecchia; e, quando gli occorre che gli ordinatori della nuova setta siano di lingua diversa, la spengono facilmente. La quale cosa si conosce considerando e' modi che ha tenuti la setta Cristiana contro alla Gentile; la quale ha cancellati tutti gli ordini, tutte le cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica teologia. Vero che non gli riuscito spegnere in tutto la notizia delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella: il che nato per avere quella mantenuta la lingua latina; il che feciono forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa. Perch, se l'avessono potuta scrivere con nuova lingua, considerato le altre persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe ricordo alcuno delle cose passate. E chi legge i modi tenuti da San Gregorio, e dagli altri capi della religione cristiana, vedr con quanta ostinazione e' perseguitarono tutte le memorie antiche, ardendo le opere de' poeti e degli istorici, ruinando le imagini e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno della antichit. Talch, se a questa persecuzione egli avessono aggiunto una nuova lingua, si sarebbe veduto in brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. da credere, pertanto, che quello che ha voluto fare la setta Cristiana contro alla setta Gentile, la Gentile abbia fatto contro a quella che era innanzi a lei. E perch queste stte in cinque o in seimila anni variano due o tre volte, si perde la memoria delle cose fatte innanzi a quel tempo; e se pure ne resta alcun segno, si considera come cosa favolosa, e non prestato loro fede: come interviene alla istoria di Diodoro Siculo, che, bench e' renda ragione di quaranta o cinquantamila anni, nondimeno riputato, come io credo, che sia cosa mendace.
Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana generazione, e riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una inondazione d'acque: e la pi importante questa ultima, s perch la pi universale, s perch quegli che si salvono sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna antichit, non la possono lasciare a' posteri. E se infra loro si salvasse alcuno che ne avessi notizia, per farsi riputazione e nome, la nasconde, e la perverte a suo modo; talch ne resta solo a' successori quanto ei ne ha voluto scrivere, e non altro. E che queste inondazioni, peste e fami venghino, non credo sia da dubitarne; s perch ne sono piene tutte le istorie, s perch si vede questo effetto della oblivione delle cose, s perch e' pare ragionevole ch'e' sia: perch la natura, come ne' corpi semplici, quando e' vi ragunato assai materia superflua, muove per s medesima molte volte, e fa una purgazione, la quale salute di quel corpo; cos interviene in questo corpo misto della umana generazione, che, quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo che non possono vivervi, n possono andare altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e la malignit umana venuta dove la pu venire, conviene di necessit che il mondo si purghi per uno de' tre modi; acciocch gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti, vivino pi comodamente, e diventino migliori. Era dunque, come di sopra detto, gi la Toscana potente, piena di religione e di virt, aveva i suoi costumi e la sua lingua patria: il che tutto suto spento dalla potenza romana. Talch, come si detto, di lei ne rimane solo la memoria del nome.
Capitolo 6
Come i Romani procedevano nel fare la guerra.
Avendo discorso come i Romani procedevano nello ampliare, discorrereno ora come e' procedevano nel fare la guerra; ed in ogni loro azione si vedr con quanta prudenzia ei deviarono dal modo universale degli altri, per facilitarsi la via a venire a una suprema grandezza. La intenzione di chi fa guerra per elezione, o vero per ambizione, acquistare e mantenere lo acquistato; e procedere in modo con essa, che l'arricchisca e non impoverisca il paese e la patria sua. necessario dunque, e nello acquistare e nel mantenere, pensare di non spendere; anzi fare ogni cosa con utilit del publico suo. Chi vuole fare tutte queste cose, conviene che tenga lo stile e modo romano: il quale fu in prima di fare le guerre, come dicano i Franciosi, corte e grosse; perch, venendo in campagna con eserciti grossi, tutte le guerre che gli ebbono con i Latini, Sanniti e Toscani, le spedirano in brevissimo tempo. E se si noteranno tutte quelle che feciono dal principio di Roma infino alla ossidione de' Veienti, tutte si vedranno ispedite, quale in sei, quale in dieci, quale in venti d. Perch l'uso loro era questo: subito che era scoperta la guerra, egli uscivano fuora con gli eserciti allo incontro del nimico, e subito facevano la giornata. La quale vinta, i nimici, perch non fosse guasto loro il contado affatto venivano alle condizioni ed i Romani gli condannavano in terreni: i quali terreni gli convertivano in privati commodi o gli consegnavano ad una colonia; la quale posta in su le frontiere di coloro veniva ad essere guardia de' confini romani, con utile di essi coloni, che avevano quegli campi, e con utile del publico di Roma, che sanza spesa teneva quella guardia. N poteva questo modo essere pi sicuro, o pi forte, o pi utile: perch mentre che i nimici non erano in su i campi, quella guardia bastava: come e' fossono usciti fuori grossi per opprimere quella colonia, ancora i Romani uscivano fuori grossi, e venivano a giornata con quegli, e fatta e vinta la giornata, imponendo loro pi grave condizione, si tornavano in casa. Cos venivano ad acquistare di mano in mano riputazione sopra di loro, e forze in s medesimi. E questo modo vennono tenendo infino che mutarono modo di procedere in guerra: il che fu dopo la ossidione de' Veienti; dove, per potere fare guerra lungamente, gli ordinarono di pagare i soldati, che prima, per non essere necessario, essendo le guerre brevi, non gli pagavano. E bench i Romani dessino il soldo, e che per virt di questo ei potessono fare le guerre pi lunghe, e per farle pi discosto la necessit gli tenesse pi in su' campi; nondimeno non variarono mai dal primo ordine di finirle presto, secondo il luogo ed il tempo; n variarono mai dal mandare le colonie. Perch nel primo ordine gli tenne, circa il fare le guerre brevi oltra a il loro naturale uso, l'ambizione de' Consoli; i quali avendo a stare uno anno e di quello anno sei mesi alle stanze, volevano finire la guerra per trionfare. Nel mandare le colonie gli tenne l'utile e la commodit grande che ne risultava. Variarono bene alquanto circa le prede, delle quali non erano cos liberali come erano stati prima; s perch e' non pareva loro tanto necessario, avendo i soldati lo stipendio; s perch, essendo le prede maggiori, disegnavano d'ingrassare di quelle in modo il publico che non fussono constretti a fare le imprese con tributi della citt. Il quale ordine in poco tempo fece il loro erario ricchissimo. Questi dua modi, adunque, e circa il distribuire la preda, e circa il mandare le colonie, feciono che Roma arricchiva della guerra; dove gli altri principi e republiche non savie ne impoveriscono. E si ridusse la cosa in termine, che a uno Consolo non pareva potere trionfare, se non portava col suo trionfo assai oro ed argento, e d'ogni altra sorta preda, nello erario. Cos i Romani, con i soprascritti termini, e con il finire le guerre presto, sendo valenti con lunghezza straccare i nimici, e con le rotte e con le scorrerie e con accordi a loro vantaggi, diventarono sempre pi ricchi e pi potenti.
Capitolo 7
Quanto terreno i Romani davano per colono.
Quanto terreno i Romani distribuissono per colono, credo sia difficile trovarne la verit. Perch io credo ne dessino pi o manco, secondo i luoghi dove e' mandavano le colonie. Giudicasi che ad ogni modo ed in ogni luogo la distribuzione fussi parca: prima, per potere mandare pi uomini, sendo quelli diputati per guardia di quel paese; dipoi perch, vivendo loro poveri a casa, non era ragionevole che volessono che i loro uomini abbondassino troppo fuora. E Tito Livio dice come, preso Veio, e' vi mandarono una colonia, e distribuirono a ciascuno tre iugeri e stte once di terra; che sono, al modo nostro.... Perch, oltre alle cose soprascritte, e'giudicavano che non lo assai terreno, ma il bene cultivato, bastasse. necessario bene, che tutta la colonia abbi campi publici dove ciascuno possa pascere il suo bestiame, e selve dove prendere del legname per ardere; sanza le quali cose non pu una colonia ordinarsi.
Capitolo 8
La cagione perch i popoli si partono da' luoghi patrii, ed inondano il paese altrui.
Poich di sopra si ragionato del modo nel procedere nella guerra osservato da' Romani, e come i Toscani furono assaltati da' Franciosi, non mi pare alieno dalla materia discorrere, come le si fanno di dua generazioni guerre. L'una fatta per ambizione de' principi o delle republiche, che cercano di propagare lo imperio; come furono le guerre che fece Alessandro Magno, e quelle che fecero i Romani, e quelle che fanno, ciascuno d, l'una potenza con l'altra. Le quali guerre sono pericolose, ma non cacciano al tutto gli abitatori d'una provincia; perch e' basta, al vincitore, solo la ubbidienza de' popoli, e il pi delle volte gli lascia vivere con le loro leggi, e sempre con le loro case, e ne' loro beni. L'altra generazione di guerra quando uno popolo intero con tutte le sue famiglie si lieva d'uno luogo, necessitato o dalla fame o dalla guerra, e va a cercare nuova sede e nuova provincia; non per comandarla, come quegli di sopra, ma per possederla tutta particularmente, e cacciarne o ammazzare gli abitatori antichi di quella. Questa guerra crudelissima e paventosissima. E di queste guerre ragiona Sallustio nel fine dell'Iugurtino, quando dice che, vinto Iugurta, si sent il moto de' Franciosi che venivano in Italia: dove ei dice che il Popolo romano con tutte le altre genti combatt solamente per chi dovesse comandare, ma con i Franciosi combatt sempre per la salute di ciascuno. Perch a un principe o a una republica, che assalta una provincia, basta spegnere solo coloro che comandano; ma a queste populazioni conviene spegnere ciascuno, perch vogliono vivere di quello che altri viveva. I Romani ebbero tre di queste guerre pericolosissime. La prima fu quella quando Roma fu presa, la quale fu occupata da quei Franciosi che avevano tolto, come di sopra si disse, la Lombardia a' Toscani, e fattone loro sedia; della quale Tito Livio ne allega due cagioni: la prima, come di sopra si disse, che furono allettati dalla dolcezza delle frutte e del vino d'Italia, delle quali mancavano in Francia; la seconda che, essendo quel regno francioso multiplicato in tanto di uomini, che non vi si potevono pi nutrire, giudicarono i principi di quelli luoghi, che e' fusse necessario che una parte di loro andasse a cercare nuova terra, e, fatta tale deliberazione, elessono, per capitani di quegli che si avevano a partire, Belloveso e Sicoveso, duoi re de' Franciosi: de' quali Belloveso venne in Italia, e Sicoveso pass in Ispagna. Dalla passata del quale Belloveso nacque la occupazione di Lombardia, e di quindi la guerra che prima i Franciosi fecero a Roma. Dopo questa, fu quella che fecero dopo la prima guerra cartaginese, quando intra Piombino e Pisa ammazzarono pi che dugentomila Franciosi. La terza, fu quando i Tedeschi e' Cimbri vennero in Italia: i quali, avendo vinti pi eserciti romani, furono vinti da Mario. Vinsero adunque i Romani queste tre guerre pericolosissime. N era necessario minore virt a vincerle, perch si vide poi, come la virt romana manc e che quelle armi perderono il loro antico valore, fu quello imperio destrutto da simili popoli: i quali furono Gotti, Vandali, e simili, che occuparono tutto lo Imperio occidentale.
Escono tali popoli de' paesi loro, come di sopra si disse, cacciati dalla necessit: e la necessit nasce o dalla fame, o da una guerra ed oppressione che ne' paesi propri loro fatta: talch e' son constretti cercare nuove terre. E questi tali, o e' sono gran numero; ed allora con violenza entrano ne' paesi d'altrui, ammazzano gli abitatori, posseggono i loro beni, fanno uno nuovo regno, mutano il nome della provincia: come fece Mois, e quelli popoli che occuparono lo Imperio romano. Perch questi nomi nuovi che sono nella Italia e nelle altre provincie, non nascono da altro che da essere state nomate cos da nuovi occupatori: come la Lombardia, che si chiamava Gallia Cisalpina: la Francia si chiamava Gallia Transalpina, ed ora nominata da' Franchi, che cos si chiamavono quelli popoli che la occuparono: la Schiavonia si chiamava Illiria; l'Ungheria, Pannonia; l'Inghilterra, Britannia; e molte altre provincie che hanno mutato nome, le quali sarebbe tedioso raccontare. Mois ancora chiam Giudea quella parte di Soria occupata da lui. E perch io ho detto, di sopra, che qualche volta tali popoli sono cacciati dalla propria sede per guerra, donde sono constretti cercare nuove terre; ne voglio addurre lo esemplo de' Maurusii, popoli anticamente in Soria: i quali, sentendo venire i popoli ebraici, e giudicando non potere loro resistere, pensarono essere meglio salvare loro medesimi, e lasciare il paese proprio, che, per volere salvare quello, perdere ancora loro; e levatisi con loro famiglie, se ne andarono in Africa, dove posero la loro sedia, cacciando via quelli abitatori che in quegli luoghi trovarono. E cos quegli che non avevano potuto difendere il loro paese, potettono occupare quello d'altrui. E Procopio, che scrive la guerra che fece Belisario coi Vandali, occupatori della Africa, riferisce avere letto lettere scritte in certe colonne, ne' luoghi dove questi Maurusii abitavano, le quali dicevano: "Nos Maurusii, qui fugimus a facie Jesu latronis filii Navae". Dove apparisce la cagione della partita loro di Soria. Sono, pertanto, questi popoli formidolosissimi, sendo cacciati da una ultima necessit; e se e' non riscontrano buone armi, non mai saranno sostenuti. Ma quando quegli che sono costretti abbandonare la loro patria non sono molti, non sono s pericolosi come quelli popoli di chi si ragionato; perch non possono usare tanta violenza, ma conviene loro con arte occupare qualche luogo, e, occupatolo, mantenervisi per via d'amici e di confederati: come si vede che fece Enea Didone, i Massiliesi e simili; i quali tutti, per consentimento de' vicini, dov'e' posono, poterono mantenervisi. Escono i popoli grossi, e sono usciti quasi tutti, de' paesi di Scizia; luoghi freddi e poveri: dove, per essere assai uomini, ed il paese di qualit da non gli potere nutrire, sono forzati uscirne, avendo molte cose che gli cacciono, e nessuna che gli ritenga. E se, da cinquecento anni in qua, non occorso che alcuni di questi popoli abbiano inondato alcuno paese, nato per pi cagioni. La prima, la grande evacuazione che fece quel paese nella declinazione dello Imperio, donde uscirono pi di trenta popoli. La seconda che la Magna e l'Ungheria, donde ancora uscivano di queste genti hanno ora il loro paese bonificato in modo che vi possono vivere agiatamente; talch non sono necessitati di mutare luogo. Dall'altra parte, sendo loro uomini bellicosissimi, sono come uno bastione a tenere che gli Sciti, i quali con loro confinano, non presumino di potere vincergli o passarli. E spesse volte occorrono movimenti grandissimi de' Tartari che sono dipoi dagli Ungheri e da quelli di Polonia sostenuti; e spesso si gloriano, che, se non fussono l'armi loro, la Italia e la Chiesa arebbe molte volte sentito il peso degli eserciti tartari. E questo voglio basti quanto ai prefati popoli.
Capitolo 9
Quali cagioni comunemente faccino nascere le guerre intra i potenti.
La cagione che fece nascere guerra intra i Romani ed i Sanniti, che erano stati in lega gran tempo, una cagione comune che nasce infra tutti i principati potenti. La quale cagione o la viene a caso o la fatta nascere da colui che disidera muovere la guerra. Quella che nacque intra i Romani ed i Sanniti fu a caso; perch la intenzione de' Sanniti non fu, movendo guerra a' Sidicini, e dipoi ai Campani, muoverla ai Romani. Ma, sendo i Campani oppressati, e ricorrendo a Roma fuora della opinione de' Romani e de' Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani ai Romani, come cosa loro defendergli, e pigliare quella guerra che a loro parve non potere con loro onore fuggire. Perch e' pareva bene ai Romani ragionevole non potere difendere i Campani come amici, contro a' Sanniti amici, ma pareva ben loro vergogna non gli difendere come sudditi ovvero raccomandati; giudicando, quando e' non avessino presa tale difesa, trre la via a tutti quegli che disegnassino venire sotto la potest loro. Perch, avendo Roma per fine lo imperio e la gloria, e non la quiete, non poteva ricusare questa impresa. Questa medesima cagione dette principio alla prima guerra contro ai Cartaginesi, per la defensione che i Romani presono de' Messinesi in Sicilia: la quale fu ancora a caso. Ma non fu gi a caso, dipoi, la seconda guerra che nacque infra loro; perch Annibale capitano cartaginese assalt i Saguntini amici de' Romani in Ispagna, non per offendere quelli, ma per muovere l'armi romane, ed avere occasione di combatterli, e passare in Italia. Questo modo nello appiccare nuove guerre stato sempre consueto intra i potenti, e che si hanno, e della fede e d'altro, qualche rispetto. Perch, se io voglio fare guerra con uno principe, ed infra noi siano fermi capitoli per un gran tempo osservati, con altra giustificazione e con altro colore assalter io uno suo amico che lui proprio; sappiendo, massime, che, nello assaltare lo amico, o ei si risentir, ed io ar lo intento mio di farli guerra, o, non si risentendo, si scoprir la debolezza o la infidelit sua, di non difendere uno suo raccomandato. E l'una e l'altra di queste due cose e per torli riputazione, e per fare pi facili i disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per la dedizione de' Campani, circa al muovere guerra, quanto di sopra si detto; e di pi, quale rimedio abbia una citt che non si possa per s stessa difendere, e vogliasi difendere in ogni modo da quello che l'assalta: il quale darsi liberamente a quello che tu disegni che ti difenda, come feciono i Capovani a' Romani, e i Fiorentini a il re Ruberto di Napoli: il quale non gli volendo difendere come amici, gli difese poi come sudditi contro alle forze di Castruccio da Lucca, che gli opprimeva.
Capitolo 10
I danari non sono il nervo della guerra, secondo che la comune opinione.
Perch ciascuno pu cominciare una guerra a sua posta, ma non finirla, debbe uno principe, avanti che prenda una impresa, misurare le forze sue, e secondo quelle governarsi. Ma debbe avere tanta prudenza, che delle sue forze ei non s'inganni; ed ogni volta s'inganner, quando le misuri o dai danari, o dal sito, o dalla benivolenza degli uomini, mancando, dall'altra parte, d'armi proprie. Perch le cose predette ti accrescono bene le forze, ma ben non te le danno; e per s medesime sono nulla; e non giovono alcuna cosa sanza l'armi fedeli. Perch i danari assai non ti bastano sanza quelle; non ti giova la fortezza del paese e la fede e benivolenza degli uomini non dura, perch questi non ti possono essere fedeli, non gli potendo difendere. Ogni monte, ogni lago, ogni luogo inaccessibile diventa piano, dove i forti difensori mancano. I danari ancora, non solo non ti difendono, ma ti fanno predare pi presto. N pu essere pi falsa quella comune opinione che dice, che i danari sono il nervo della guerra. La quale sentenza detta da Quinto Curzio nella guerra che fu intra Antipatro macedone e il re spartano: dove narra, che, per difetto di danari, il re di Sparta fu necessitato azzuffarsi, e fu rotto; ch se ei differiva la zuffa pochi giorni, veniva la nuova in Grecia della morte di Alessandro, donde ei sarebbe rimaso vincitore sanza combattere: ma, mancandogli i danari, e dubitando che lo esercito suo per difetto di quegli non lo abbandonasse, fu constretto tentare la fortuna della zuffa: talch Quinto Curzio per questa cagione afferma, i danari essere il nervo della guerra. La quale sentenza allegata ogni giorno, e da' principi, non tanto prudenti che basti, seguitata. Perch, fondatisi sopra quella, credono che basti loro, a difendersi, avere tesoro assai, e non pensano che se il tesoro bastasse a vincere, che Dario arebbe vinto Alessandro; i Greci arebbono vinto i Romani; ne' nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti i Svizzeri; e pochi giorni sono, il Papa ed i Fiorentini insieme non arebbono avuta difficult in vincere Francesco Maria, nipote di papa Iulio II, nella guerra di Urbino. Ma tutti i soprannominati furono vinti da coloro che non il danaio ma i buoni soldati stimano essere il nervo della guerra. Intra le altre cose che Creso re de' Lidii mostr a Solone ateniese, fu uno tesoro innumerabile, e domandando quel che gli pareva della potenza sua, gli rispose Solone, che per quello e' non lo giudicava pi potente; perch la guerra si faceva con il ferro e non con l'oro, e che poteva venire uno che avessi pi ferro di lui, e torgliene. Oltre a di questo, quando, dopo la morte di Alessandro Magno, una moltitudine di Franciosi pass in Grecia, e poi in Asia, e, mandando i Franciosi oratori a il re di Macedonia per trattare certo accordo; quel re, per mostrare la potenza sua e per sbigottirli, mostr loro oro ed ariento assai: donde quelli Franciosi, che di gi avevano come ferma la pace, la ruppono; tanto desiderio in loro crebbe di torgli quell'oro: e cos fu quel re spogliato per quella cosa che egli aveva per sua difesa accumulata. I Viniziani, pochi anni sono, avendo ancora lo erario loro pieno di tesoro, perderno tutto lo stato, sanza potere essere difesi da quello.
Dico pertanto, non l'oro, come grida la comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati: perch l'oro non sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono bene sufficienti a trovare l'oro. Ai Romani, s'eglino avessoro voluto fare la guerra pi con i danari che con il ferro, non sarebbe bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le grandi imprese che feciono, e le difficult che vi ebbono dentro. Ma, faccendo le loro guerre con il ferro, non patirono mai carestia dell'oro, perch da quegli che gli temevano era portato loro infino ne' campi. E se quel re spartano per carestia di danari ebbe a tentare la fortuna della zuffa, intervenne a lui quello, per conto de' danari, che molte volte intervenuto per altre cagioni: perch si veduto che, mancando a uno esercito le vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di fame o azzuffarsi, si piglia il partito sempre di azzuffarsi, per essere pi onorevole, e dove la fortuna ti pu in qualche modo favorire. Ancora intervenuto molte volte, che, veggendo uno capitano al suo esercito inimico venire soccorso, gli conviene o azzuffarsi con quello e tentare la fortuna della zuffa; o, aspettando ch'egli ingrossi, avere a combattere in ogni modo, con mille suoi disavvantaggi. Ancora si visto (come intervenne a Asdrubale, quando nella Marca fu assaltato da Claudio Nerone, insieme con l'altro console romano) che un capitano, necessitato o a fuggirsi o a combattere, come sempre elegge il combattere; parendogli in questo partito, ancora che dubbiosissimo, potere vincere; ed in quello altro avere a perdere in ogni modo. Sono, adunque, molte necessitadi che fanno a un capitano fuor della sua intenzione pigliare partito di azzuffarsi, intra le quali qualche volta pu essere la carestia de' danari; n per questo si debbono i danari giudicare essere il nervo della guerra, pi che le altre cose che inducano gli uomini a simile necessit. Non , adunque, replicandolo di nuovo, l'oro il nervo della guerra, ma i buoni soldati. Son bene necessari i danari in secondo luogo, ma una necessit che i soldati buoni per s medesimi la vincono; perch impossibile che ai buoni soldati manchino i danari, come che i danari per loro medesimi trovino i buoni soldati. Mostra, questo che noi diciamo essere vero, ogni istoria in mille luoghi; non ostante che Pericle consigliasse gli Ateniesi a fare guerra con tutto il Peloponnesso, mostrando ch'e' potevano vincere quella guerra con la industria e con la forza del danaio. E bench in tale guerra gli Ateniesi prosperassino qualche volta, in ultimo la perderono; e valson pi il consiglio e li buoni soldati di Sparta, che la industria ed il danaio di Atene. Ma Tito Livio di questa opinione pi vero testimone che alcuno altro, dove, discorrendo se Alessandro Magno fussi venuto in Italia, s'egli avesse vinto i Romani, mostra essere tre cose necessarie nella guerra; assai soldati e buoni, capitani prudenti, e buona fortuna: dove, esaminando quali o i Romani o Alessandro prevalessero in queste cose, fa dipoi la sua conclusione sanza ricordare mai i danari. Doverono i Capovani, quando furono richiesti da' Sidicini che prendessono l'armi per loro contro ai Sanniti, misurare la potenza loro dai danari, e non da' soldati: perch, preso ch'egli ebbero partito di aiutargli, dopo due rotte furono constretti farsi tributari de' Romani, se si vollono salvare.
Capitolo 11
Non partito prudente fare amicizia
con uno principe che abbia pi opinione che forze.
Volendo Tito Livio mostrare lo errore de' Sidicini a fidarsi dello aiuto de' Campani, e lo errore de' Campani a credere potergli difendere, non lo potrebbe dire con pi vive parole, dicendo: "Campani magis nomen in auxilium Sidicinorum, quam vires ad praesidium attulerunt". Dove si debbe notare che le leghe che si fanno coi principi, che non abbino o commodit di aiutarti per la distanza del sito, o forze da farlo per suo disordine o altra sua cagione, arrecono pi fama che aiuto a coloro che se ne fidano: come intervenne, ne' d nostri, ai Fiorentini, quando, nel 1479, il Papa ed il re di Napoli gli assaltarono: ch, essendo amici del re di Francia, trassono di quella amicizia "magis nomen, quam praesidium", come interverrebbe ancora a quel principe, che, confidatosi di Massimiliano imperadore, facesse qualche impresa; perch questa una di quelle amicizie che arrecherebbe a chi la facesse "magis nomen, quam praesidium", come si dice, in questo testo, che arrec quella de' Capovani a' Sidicini. Errarono, adunque, in questa parte i Capovani, per parere loro avere pi forze che non avevano. E cos fa la poca prudenzia degli uomini, qualche volta, che, non sappiendo n potendo difendere s medesimi, vogliono prendere impresa di difendere altrui: come fecero ancora i Tarentini, i quali, sendo gli eserciti romani allo incontro dello esercito Sannite, mandarono ambasciadori al Console romano, a fargli intendere come ei volevano pace intra quegli due popoli, e come erano per fare guerra contro a quello che dalla pace si discostasse; talch il Console, ridendosi di questa proposta, alla presenza di detti ambasciadori fece sonare a battaglia, ed al suo esercito comand che andasse a trovare il nimico, mostrando ai Tarentini, con la opera e non con le parole, di che risposta essi erano degni.
Ed avendo nel presente capitolo ragionato de' partiti che pigliono i principi, al contrario, per la difesa d'altrui, voglio, nel seguente, parlare di quegli che si pigliano per la difesa propria.