Niccol Machiavelli

Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio

 

 

Capitolo 11

Che chi ha a fare con assai, ancora che sia inferiore,

pure che possa sostenere gli primi impeti, vince.

 

La potenza de' Tribuni della plebe nella citt di Roma fu grande; e fu necessaria, come molte volte da noi stato discorso, perch altrimenti non si sarebbe potuto porre freno all'ambizione della Nobilit, la quale arebbe molto tempo innanzi corrotta quella republica, che la non si corroppe. Nondimeno, perch in ogni cosa, come altre volte si detto, nascoso qualche proprio male, che fa surgere nuovi accidenti, necessario a questo con nuovi ordini provvedere. Essendo, pertanto, divenuta l'autorit tribunizia insolente, e formidabile alla Nobilit e a tutta Roma, e' ne sarebbe nato qualche inconveniente, dannoso alla libert romana, se da Appio Claudio non fosse stato mostro il modo con il quale si avevano a difendere contro all'ambizione de' Tribuni: il quale fu che trovarono sempre infra loro qualcuno che fussi, o pauroso, o corrottibile, o amatore del comune bene; talmente che lo disponevano ad opporsi alla volont di quegli altri, che volessono tirare innanzi alcuna deliberazione contro alla volont del Senato. Il quale rimedio fu un grande temperamento a tanta autorit, e per molti tempi giov a Roma. La quale cosa mi ha fatto considerare che, qualunche volta e' sono molti potenti uniti contro a un altro potente ancora che tutti insieme siano molto pi potenti di quello, nondimanco si debbe sempre sperare pi in quel solo e men gagliardo che in quelli assai, ancora che gagliardissimi. Perch, lasciando stare tutte quelle cose delle quali uno solo si pu, pi che molti, prevalere (che sono infinite), sempre occorrer questo: che potr, usando un poco d'industria, disunire gli assai; e quel corpo, ch'era gagliardo, fare debole. Io non voglio in questo addurre antichi esempli, che ce ne sarebbono assai; ma voglio mi bastino i moderni, seguiti ne' tempi nostri.

Congiur nel 1481 tutta Italia contro ai Viniziani; e poich loro al tutto erano persi, e non potevano stare pi con lo esercito in campagna, corruppono il signor Lodovico che governava Milano, e per tale corrozione feciono uno accordo, nel quale non solamente riebbono le terre perse ma usurparono parte dello stato di Ferrara. E cos coloro che perdevano nella guerra, restarono superiori nella pace. Pochi anni sono, congiur contro a Francia tutto il mondo: nondimeno, avanti che si vedesse il fine della guerra, Spagna si ribell da' confederati, e fece accordo seco; in modo che gli altri confederati furono constretti, poco dipoi, ad accordarsi ancora essi. Talch, sanza dubbio, si debbe sempre mai fare giudicio, quando e' si vede una guerra mossa da molti contro ad uno, che quello uno abbia a restare superiore, quando sia di tale virt, che possa sostenere i primi impeti, e col temporeggiarsi aspettare tempo. Perch, quando ei non fosse cos, porterebbe mille pericoli: come intervenne a' Viniziani nell'otto, i quali, se avessero potuto temporeggiare con lo esercito francioso, ed avere tempo a guadagnarsi alcuno di quegli che gli erano collegati contro, averiano fuggita quella rovina; ma, non avendo virtuose armi da potere temporeggiare il nimico, e per questo non avendo avuto tempo a separarne alcuno, rovinarono. Per che si vide che il Papa, riavuto ch'egli ebbe le cose sue, si fece loro amico, e cos Spagna: e molto volentieri l'uno e l'altro di questi due principi arebbero salvato loro lo stato di Lombardia contro a Francia, per non la fare s grande in Italia, se gli avessono potuto. Potevano, dunque, i Viniziani dare parte per salvare il resto: il che se loro avessono fatto in tempo che paressi che la non fussi stata necessit, ed innanzi ai moti della guerra, era savissimo partito; ma in su' moti era vituperoso, e per avventura di poco profitto. Ma, innanzi a tali moti, pochi in Vinegia de' cittadini potevano vedere il pericolo, pochissimi vedere il rimedio, e nessuno consigliarlo. Ma, per tornare al principio di questo discorso, conchiudo: che cos come il Senato romano ebbe rimedio per la salute della patria contro all'ambizione de' Tribuni, per essere molti, cos ar rimedio qualunque principe che sia assaltato da molti, qualunque volta ei sapr con prudenza usare termini convenienti a disgiungerli.

 

 

Capitolo 12

Come uno capitano prudente debbe imporre ogni necessit

di combattere a' suoi soldati, e, a quegli degli inimici, torla.

 

Altre volte abbiamo discorso quanto sia utile alle umane azioni la necessit, ed a quale gloria siano sute condutte da quella; e, come da alcuni morali filosofi stato scritto, le mani e la lingua degli uomini, duoi nobilissimi instrumenti a nobilitarlo, non arebbero operato perfettamente, n condotte le opere umane a quella altezza si veggono condotte, se dalla necessit non fussoro spinte. Sendo conosciuta, adunque, dagli antichi capitani degli eserciti la virt di tale necessit, e quanto per quella gli animi de' soldati diventavono ostinati al combattere; facevano ogni opera perch i soldati loro fussero constretti da quella; e, dall'altra parte, usavono ogni industria perch gli nimici se ne liberassero: e per questo molte volte apersono al nimico quella via che loro gli potevano chiudere; ed a' suoi soldati propri chiusono quella che potevano lasciare aperta. Quello, adunque, che desidera o che una citt si defenda ostinatamente, o che uno esercito in campagna ostinatamente combatta, debbe, sopra ogni altra cosa, ingegnarsi di mettere, ne' petti di chi ha a combattere, tale necessit. Onde uno capitano prudente, che avesse a andare ad una espugnazione d'una citt, debbe misurare la facilit o la difficult dello espugnarla, dal conoscere e considerare quale necessit constringa gli abitatori di quella a difendersi: e quando vi truovi assai necessit che gli constringa alla difesa, giudichi la espugnazione difficile; altrimenti, la giudichi facile. Quinci nasce che le terre, dopo la rebellione, sono pi difficili ad acquistare, che le non sono nel primo acquisto; perch, nel principio, non avendo cagione di temere di pena, per non avere offeso, si arrendono facilmente; ma parendo loro, sendosi dipoi ribellate, avere offeso, e per questo temendo la pena, diventono difficili ad essere espugnate. Nasce ancora tale ostinazione da e' naturali odii che hanno i principi vicini, e le republiche vicine, l'uno con l'altro: il che procede da ambizione di dominare e gelosia del loro stato, massimamente se le sono republiche, come interviene in Toscana; la quale gara e contenzione ha fatto e far sempre difficile la espugnazione l'una dell'altra. Pertanto, chi considera bene i vicini della citt di Firenze ed i vicini della citt di Vinegia, non si maraviglier, come molti fanno, che Firenze abbia pi speso nelle guerre, ed acquistato meno di Vinegia: perch tutto nasce da non avere avuto i Viniziani le terre vicine s ostinate alla difesa, quanto ha avuto Firenze; per essere state tutte le cittadi finitime a Vinegia use a vivere sotto uno principe, e non libere; e quegli che sono consueti a servire, stimono molte volte poco il mutare padrone, anzi molte volte lo desiderano. Talch Vinegia, bench abbia avuto i vicini pi potenti che Firenze, per avere trovato le terre meno ostinate, le ha potuto pi tosto vincere, che non ha fatto quella sendo circundata da tutte citt libere.

Debbe adunque uno capitano, per tornare al primo discorso, quando egli assalta una terra, con ogni diligenza ingegnarsi di levare, a' difensori di quella, tale necessit, e, per consequenzia, tale ostinazione; promettendo perdono, se gli hanno paura della pena; e se gli avessono paura della libert, mostrare di non andare contro al comune bene, ma contro a pochi ambiziosi della citt; la quale cosa molte volte ha facilitato le imprese e le espugnazioni delle terre. E bench simili colori sieno facilmente conosciuti, e massime dagli uomini prudenti; nondimeno vi sono spesso ingannati i popoli, i quali, cupidi della presente pace, chiuggono gli occhi a qualunque altro laccio che sotto le larghe promesse si tendesse. E per questa via infinite citt sono diventate serve: come intervenne a Firenze ne' prossimi tempi; e come intervenne a Crasso ed allo esercito suo: il quale, come che conoscesse le vane promesse de' Parti, le quali erano fatte per trre via la necessit a' suoi soldati del difendersi, non per tanto non potette tenergli ostinati, accecati dalle offerte della pace che erano fatte loro da' loro inimici; come si vede particularmente leggendo la vita di quello. Dico pertanto, che avendo i Sanniti, fuora delle convenzioni dello accordo, per l'ambizione di pochi, corso e predato sopra i campi de' confederati romani; ed avendo dipoi mandati imbasciadori a Roma a chiedere pace, offerendo di ristituire le cose predate, e di dare prigioni gli autori de' tumulti e della preda; furono ributtati dai Romani. E ritornati in Sannio sanza speranza di accordo, Claudio Ponzio, capitano allora dello esercito de' Sanniti, con una sua notabile orazione mostr come i Romani volevono in ogni modo guerra, e, bench per loro si desiderasse la pace, necessit gli faceva seguire la guerra dicendo queste parole: "Iustum est bellum quibus necessarium, et pia arma quibus nisi in armis spes est"; sopra la quale necessit egli fond con gli suoi soldati la speranza della vittoria. E per non avere a tornare pi sopra questa materia, mi pare di addurci quelli esempli romani che sono pi degni di notazione. Era Gaio Manilio con lo esercito, all'incontro de' Veienti; ed essendo parte dello esercito veientano entrato dentro agli steccati di Manilio, corse Manilio con una banda al soccorso di quegli; e perch i Veienti non potessino salvarsi, occup tutti gli aditi del campo; donde veggendosi i Veienti rinchiusi, cominciarono a combattere con tanta rabbia, che gli ammazzarono Manilio; ed arebbero tutto il resto de' Romani oppressi, se dalla prudenza d'uno Tribuno non fusse stato loro aperta la via ad andarsene. Dove si vede come, mentre la necessit costrinse i Veienti a combattere, e' combatterono ferocissimamente; ma quando viddero aperta la via, pensarono pi a fuggire che a combattere.

Erano entrati i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne' confini romani. Mandossi loro allo incontro i Consoli. Talch, nel travagliare la zuffa, lo esercito de' Volsci, del quale era capo Vezio Messio, si trov, ad un tratto, rinchiuso intra gli steccati suoi, occupati dai Romani, e l'altro esercito romano; e veggendo come gli bisognava o morire o farsi la via con il ferro, disse a' suoi soldati queste parole: "Ite mecum; non murus nec vallum, armati armatis obstant; virtute pares, quae ultimum ac maximum telum est, necessitate superiores estis". S che questa necessit chiamata da Tito Livio "ultimum ac maximum telum". Cammillo, prudentissimo di tutti i capitani romani, sendo gi dentro nella citt de' Veienti con il suo esercito, per facilitare il pigliare quella, e trre ai nimici una ultima necessit di difendersi, comand, in modo che i Veienti udirono, che nessuno offendessi quegli che fussono disarmati; talch, gittate l'armi in terra, si prese quella citt quasi sanza sangue. Il quale modo fu dipoi da molti capitani osservato.

 

 

Capitolo 13

Dove sia pi da confidare, o in uno buono capitano

che abbia lo esercito debole, o in uno buono esercito

che abbia il capitano debole.

 

Essendo diventato Coriolano esule di Roma, se n'and ai Volsci; dove contratto uno esercito per vendicarsi contro ai suoi cittadini, se ne venne a Roma; donde dipoi si part, pi per la piat della sua madre, che per le forze de' Romani. Sopra il quale luogo Tito Livio dice, essersi per questo conosciuto, come la Republica romana crebbe pi per la virt de' capitani che de' soldati; considerato come i Volsci per lo addietro erano stati vinti, e solo poi avevano vinto che Coriolano fu loro capitano. E bench Livio tenga tale opinione, nondimeno si vede in molti luoghi della sua istoria la virt de' soldati sanza capitano avere fatto maravigliose pruove, ed essere stati pi ordinati e pi feroci dopo la morte de' Consoli loro, che innanzi che morissono: come occorse nello esercito che i Romani avevano in Ispagna sotto gli Scipioni; il quale, morti i due capitani, pot, con la virt sua, non solamente salvare s stesso, ma vincere il nimico, e conservare quella provincia alla Republica. Talch, discorrendo tutto, si troverr molti esempli, dove solo la virt de' soldati ar vinta la giornata; e molti altri, dove solo la virt de' capitani ar fatto il medesimo effetto: in modo che si pu giudicare, l'uno abbia bisogno dell'altro, e l'altro dell'uno. cci bene da considerare, prima, quale sia pi da temere, o d'uno buono esercito male capitanato, o d'uno buono capitano accompagnato da cattivo esercito. E seguendo in questo la opinione di Cesare, si debbe estimare poco l'uno e l'altro. Perch, andando egli in Ispagna contro a Afranio e Petreio, che avevano uno ottimo esercito, disse che gli stimava poco, "quia ibat ad exercitum sine duce", mostrando la debolezza de' capitani. Al contrario, quando and in Tessaglia contro a Pompeio, disse: "Vado ad ducem sine exercitu".

Puossi considerare un'altra cosa: a quale pi facile, o ad uno buono capitano fare uno buono esercito, o ad uno buono esercito fare uno buono capitano. Sopra che dico che tale questione pare decisa: perch pi facilmente molti buoni troverranno o instruiranno uno, tanto che diventi buono, che non far uno molti. Lucullo, quando fu mandato contro a Mitridate, era al tutto inesperto della guerra; nondimanco quel buono esercito, dove era assai capi ottimi, lo feciono tosto uno buono capitano. Armorono i Romani, per difetto di uomini, assai servi, e gli dieno ad esercitare a Sempronio Gracco, il quale in poco tempo fece uno buon esercito. Pelopida ed Epaminonda, come altrove dicemo, poi che gli ebbono tratta Tebe loro patria della servit degli Spartani, in poco tempo fecero, de' contadini tebani, soldati ottimi, che poterono non solamente sostenere la milizia spartana ma vincerla. S che la cosa pari, perch l'uno buono pu trovare l'altro. Nondimeno uno esercito buono sanza capo buono suole diventare insolente e pericoloso; come divent lo esercito di Macedonia dopo la morte di Alessandro, e come erano i soldati veterani nelle guerre civili. Tanto che io credo che sia pi da confidare assai in uno capitano che abbi tempo ad instruire uomini e commodit di armargli, che in uno esercito insolente con uno capo tumultuario fatto da lui. Per da addoppiare la gloria e la laude a quelli capitani che, non solamente hanno avuto a vincere il nimico, ma, prima che venghino alle mani con quello, convenuto loro instruire lo esercito loro, e farlo buono: perch in questi si mostra doppia virt, e tanto rada, che, se tale ferita fosse stata data a molti, ne sarebbono stimati e riputati meno assai che non sono.

 

 

Capitolo 14

 

Le invenzioni nuove, che appariscono nel mezzo della zuffa,

e le voci nuove che si odino, quali effetti facciano.

 

Di quanto momento sia ne' conflitti e nelle zuffe uno nuovo accidente che nasca per cosa che di nuovo si vegga o oda, si dimostra in assai luoghi: e massime per questo esemplo che occorse nella zuffa che i Romani fecero con i Volsci: dove Quinzio, veggendo inclinare uno de' corni del suo esercito, cominci a gridare forte, che gli stessono saldi perch l'altro corno dello esercito era vittorioso: con la quale parola avendo dato animo ai suoi e sbigottimento a' nimici, vinse. E se tali voci in uno esercito bene ordinato fanno effetti grandi, in uno tumultuario e male ordinato gli fanno grandissimi, perch il tutto mosso da simile vento. Io ne voglio addurre uno esemplo notabile, occorso ne' tempi nostri. Era la citt di Perugia, pochi anni sono, divisa in due parti, Oddi e Baglioni. Questi regnavano; quelli altri erano esuli: i quali avendo, mediante loro amici, ragunato esercito, e ridottisi in alcuna loro terra propinqua a Perugia, con il favore della parte, una notte entrarono in quella citt, e, sanza essere iscoperti, se ne venivano per pigliare la piazza. E perch quella citt in su tutti i canti delle vie ha catene che la tengono sbarrata, avevano le genti oddesche, davanti, uno che con una mazza di ferro rompea i serrami di quelle, acciocch i cavagli potessero passare; e restandogli a rompere solo quella che sboccava in piazza, ed essendo gi levato il romore all'armi, ed essendo colui che rompeva oppresso dalla turba che gli veniva dietro, n potendo per questo alzare bene le braccia per rompere; per potersi maneggiare, gli venne detto: - Fatevi indietro! - la quale voce andando di grado in grado dicendo "addietro!", cominci a fare fuggire gli ultimi, e di mano in mano gli altri, con tanta furia, che per loro medesimi si ruppono: e cos rest vano il disegno degli Oddi, per cagione di s debole accidente.

Dove da considerare che, non tanto gli ordini in uno esercito sono necessari per potere ordinatamente combattere quanto perch ogni minimo accidenti non ti disordini. Perch, non per altro le moltitudini popolari sono disutili per la guerra, se non perch ogni romore ogni voce, ogni strepito, gli altera e fagli fuggire. E per uno buono capitano in tra gli altri suoi ordini debbe ordinare chi sono quegli che abbino a pigliare la sua voce e rimetterla ad altri, ed assuefare gli suoi soldati che non credino se non a quelli; e gli suoi capitani, che non dichino se non quel che da lui commesso; perch, non osservata bene questa parte, si visto molte volte avere fatti disordini grandissimi.

Quanto al vedere cose nuove, debbe ogni capitano ingegnarsi di farne apparire alcuna, mentre che gli eserciti sono alle mani, che dia animo a' suoi e tolgalo agli inimici; perch, intra gli accidenti che ti diano la vittoria, questo efficacissimo. Di che se ne pu addurre per testimone Caio Sulpizio, dittatore romano; il quale venendo a giornata con i Franciosi, arm tutti i saccomanni e gente vile del campo; e quegli fatti salire sopra i muli ed altri somieri con armi ed insegne da parere gente a cavallo, gli messe sotto le insegne, dietro ad uno colle, e comand che, ad uno segno dato, nel tempo che la zuffa fosse pi gagliarda, si scoprissono e mostrassinsi a' nimici. La quale cosa cos ordinata e fatta, dette tanto terrore ai Franciosi, che perderono la giornata. E per uno buono capitano debbe fare due cose: l'una, di vedere, con alcune di queste nuove invenzioni, di sbigottire il nimico; l'altra, di stare preparato che, essendo fatte dal nimico contro di lui, le possa scoprire, e fargliene tornare vane. Come fece il re d'India a Semiramis; la quale, veggendo come quel re aveva buono numero di elefanti, per isbigottirlo, e per mostrargli che ancora essa n'era copiosa, ne form assai con cuoia di bufoli e di vacche, e, quegli messi sopra i cammegli, gli mand davanti; ma conosciuto da il re lo inganno, le torn quel suo disegno, non solamente vano, ma dannoso. Era Mamerco, dittatore, contro ai Fidenati, i quali, per isbigottire lo esercito romano, ordinarono che, in su l'ardore della zuffa, uscisse fuori di Fidene numero di soldati con fuochi in su le lance, acciocch i Romani, occupati dalla novit della cosa, rompessono intra loro gli ordini. Sopra che da notare, che, quando tali invenzioni hanno pi del vero che del fitto, si pu bene allora rappresentarle agli uomini, perch, avendo assai del gagliardo, non si pu scoprire cos presto la debolezza loro: ma quando le hanno pi del fitto che del vero, bene, o non le fare o, faccendole, tenerle discosto, di qualit che le non possino essere cos presto scoperte; come fece Caio Sulpizio de' mulattieri. Perch, quando vi dentro debolezza, appressandosi, le si scuoprono tosto, e ti fanno danno, e non favore; come fero gli elefanti a Semiramis, e ai Fidenati i fuochi: i quali bench nel principio turbassono un poco lo esercito, nondimeno, come e' sopravenne il Dittatore, e cominci a gridargli, dicendo che non si vergognavano a fuggire il fumo come le pecchie, e che dovessono rivoltarsi a loro; gridando: "Suis flammis delete Fidenas, quas vestris beneficiis placare non potuistis"; torn quello trovato ai Fidenati inutile, e restarono perditori della zuffa.

 

 

Capitolo 15

Che uno e non molti sieno preposti ad uno esercito,

e come i pi comandatori offendono.

 

Essendosi ribellati i Fidenati, ed avendo morto quella colonia che i Romani avevano mandata in Fidene, crearono i Romani, per rimediare a questo insulto, quattro Tribuni con potest consolare de' quali lasciatone uno alla guardia di Roma, ne mandarono tre contro ai Fidenati ed i Veienti: i quali, per essere divisi infra loro e disuniti, ne riportarono disonore, e non danno: perch, del disonore, ne furono cagione loro; del non ricevere danno, ne fu cagione la virt de' soldati. Donde i Romani, veggendo questo disordine, ricorsono alla creazione del Dittatore, acciocch un solo riordinasse quello che tre avevano disordinato. Donde si conosce la inutilit di molti comandadori in uno esercito, o in una terra che si abbia a difendere; e Tito Livio non lo pu pi chiaramente dire che con le infrascritte parole: "Tres Tribuni potestate consulari documento fuere, quam plurium imperium bello inutile esset, tendendo ad sua quisque consilia, cum alii aliud videretur, aperuerunt ad occasionem locum hosti".

E bench questo sia assai esemplo a provare il disordine che fanno nella guerra i pi comandatori, ne voglio addurre alcuno altro, e moderno ed antico, per maggiore dichiarazione della cosa.

Nel 1500, dopo la ripresa che fece il re di Francia Luigi XII, di Milano, mand le sue genti a Pisa per ristituirla ai Fiorentini; dove furono mandati commessari Giovambatista Ridolfi e Luca di Antonio degli Albizi. E perch Giovambatista era uomo di riputazione, e di pi tempo, Luca al tutto lasciava governare ogni cosa a lui: e s'egli non dimostrava la sua ambizione con opporsegli, la dimostrava col tacere, e con lo straccurare e vilipendere ogni cosa, in modo che non aiutava le azioni del campo n con l'opere n con il consiglio, come se fusse stato uomo di nessuno momento. Ma si vide poi tutto il contrario; quando Giovambatista, per certo accidente seguito, se n'ebbe a tornare a Firenze; dove Luca, rimasto solo, dimostr quanto con l'animo, con la industria e col consiglio, valeva: le quali tutte cose, mentre vi fu la compagnia, erano perdute. Voglio di nuovo addurre, in confermazione di questo, parole di Tito Livio; il quale, referendo come, essendo mandato da' Romani contro agli Equi Quinzio ed Agrippa suo collega, Agrippa volle che tutta l'amministrazione della guerra fosse appresso a Quinzio, e' dice: "Saluberrimum in administratione magnarum rerum est, summam imperii apud unum esse". Il che contrario a quello che oggi fanno queste nostre republiche e principi di mandare ne' luoghi, per amministrargli meglio, pi d'uno commessario e pi d'uno capo: il che fa una inestimabile confusione. E se si cercassi le cagioni della rovina degli eserciti italiani e franciosi ne' nostri tempi, si troveria la potissima essere stata questa. E puossi conchiudere veramente, come egli meglio mandare in una ispedizione uno uomo solo di comunale prudenzia, che due valentissimi uomini insieme con la medesima autorit.

 

 

Capitolo 16

Che la vera virt si va ne' tempi difficili, a trovare;

e ne' tempi facili, non gli uomini virtuosi, ma quegli

che per ricchezze o per parentado hanno piu' grazia.

 

Egli fu sempre, e sempre sar, che gli uomini grandi e rari in una republica, ne' tempi pacifichi, sono negletti; perch, per la invidia che si ha tirato dietro la riputazione che la virt d'essi ha dato loro, si truova in tali tempi assai cittadini che vogliono, non che essere loro equali, ma essere loro superiori. E di questo ne uno luogo buono in Tucidide, istorico greco; il quale mostra come, sendo la republica ateniese rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca, ed avendo frenato l'orgoglio degli Spartani, e quasi sottomessa tutta l'altra Grecia, salse in tanta riputazione che la disegn di occupare la Sicilia. Venne questa impresa in disputa in Atene. Alcibiade e qualche altro cittadino consigliavano che la si facesse, come quelli che, pensando poco al bene publico, pensavono all'onore loro, disegnando essere capi di tale impresa. Ma Nicia, che era il primo intra i reputati di Atene, la dissuadeva; e la maggiore ragione che, nel concionare al popolo, perch gli fusse prestato fede, adducesse, fu questa: che, consigliando esso che non si facesse questa guerra, e' consigliava cosa che non faceva per lui; perch, stando Atene in pace, sapeva come vi era infiniti cittadini che gli volevano andare innanzi; ma, faccendosi guerra, sapeva che nessuno cittadino gli sarebbe superiore o equale.

Vedesi, pertanto, adunque, come nelle republiche questo disordine, di fare poca stima de' valenti uomini, ne' tempi quieti. La quale cosa gli fa indegnare in due modi: l'uno per vedersi mancare del grado loro; l'altro, per vedersi fare compagni e superiori uomini indegni e di manco sofficienza di loro. Il quale disordine nelle republiche ha causato di molte rovine; perch quegli cittadini che immeritamente si veggono disprezzare, e conoscono che e' ne sono cagione i tempi facili e non pericolosi, s'ingegnano di turbargli, movendo nuove guerre in pregiudicio della republica. E pensando quali potessono essere e' rimedi, ce ne truovo due: l'uno, mantenere i cittadini poveri, acciocch con le ricchezze sanza virt e' non potessino corrompere n loro n altri, l'altro, di ordinarsi in modo alla guerra, che sempre si potesse fare guerra, e sempre si avesse bisogno di cittadini riputati, come e' Romani ne' suoi primi tempi. Perch, tenendo fuori quella citt sempre eserciti, sempre vi era luogo alla virt degli uomini; n si poteva trre il grado a uno che lo meritasse, e darlo ad uno che non lo meritasse: perch, se pure lo faceva qualche volta, per errore o per provare, ne seguiva tosto tanto suo disordine e pericolo, che la ritornava subito nella vera via. Ma le altre republiche, che non sono ordinate come quella, e che fanno solo guerra quando la necessit le costringe, non si possono difendere da tale inconveniente: anzi sempre v'incorreranno dentro; e sempre ne nascer disordine, quando quello cittadino, negletto e virtuoso, sia vendicativo, ed abbia nella citt qualche riputazione e aderenzia. E la citt di Roma uno tempo fece difesa; ma a quella ancora, poich l'ebbe vinto Cartagine ed Antioco (come altrove si disse), non temendo pi le guerre, pareva potere commettere gli eserciti a qualunque la voleva; non riguardando tanto alla virt, quanto alle altre qualit che gli dessono grazia nel popolo. Perch si vide che Paulo Emilio ebbe pi volte la ripulsa nel consolato, n fu prima fatto consolo che surgesse la guerra macedonica; la quale giudicandosi pericolosa, di consenso di tutta la citt fu commessa a lui.

Sendo nella nostra citt di Firenze seguite dopo il 1494 di molte guerre, ed avendo fatto i cittadini fiorentini tutti una cattiva pruova, si riscontr a sorte la citt in uno che mostr come si aveva a comandare agli eserciti; il quale fu Antonio Giacomini. E mentre che si ebbe a fare guerre pericolose, tutta l'ambizione degli altri cittadini cess, e nella elezione del commessario e capo degli eserciti non aveva competitore alcuno; ma come si ebbe a fare una guerra dove non era alcuno dubbio, ed assai onore e grado, e' vi trov tanti competitori, che, avendosi ad eleggere tre commessari per campeggiare Pisa, e' fu lasciato indietro. E bench e' non si vedesse evidentemente che male ne seguisse al publico per non vi avere mandato Antonio, nondimeno se ne potette fare facilissima coniettura; perch, non avendo pi i Pisani da defendersi n da vivere, se vi fusse stato Antonio, sarebbero stati tanto innanzi stretti, che si sarebbero dati a discrezione de' Fiorentini. Ma, sendo loro assediati da capi che non sapevano ne stringergli ne sforzargli, furono tanto intrattenuti che la citt di Firenze gli comper, dove la gli poteva avere a forza. Convenne che tale sdegno potesse assai in Antonio; e bisognava ch'e' fussi bene paziente e buono, a non disiderare di vendicarsene, o con la rovina della citt, potendo, o con l'ingiuria di alcuno particulare cittadino. Da che si debbe una republica guardare; come nel seguente capitolo si discorrer.

 

 

Capitolo 17

Che non si offenda uno, e poi quel medesimo

si mandi in amministrazione e governo d'importanza.

 

Debbe una republica assai considerare di non preporre alcuno ad alcuna importante amministrazione, al quale sia stato fatto da altri alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone, il quale si part dallo esercito che lui aveva a fronte ad Annibale, e con parte d'esso ne and nella Marca, a trovare l'altro Consolo per combattere con Asdrubale avanti ch'e' si congiugnesse con Annibale, s'era trovato per lo addietro in Ispagna a fronte di Asdrubale, ed avendolo serrato in luogo con lo esercito, che bisognava o che Asdrubale combattesse con suo disavvantaggio o si morisse di fame, fu da Asdrubale astutamente tanto intrattenuto con certe pratiche d'accordo, che gli usc di sotto, e tolsegli quella occasione di oppressarlo. La quale cosa, saputa a Roma, gli dette carico grande appresso a il Senato ed al popolo; e di lui fu parlato inonestamente per tutta quella citt, non sanza suo grande disonore e disdegno. Ma, sendo poi fatto Consolo, e mandato allo incontro di Annibale, prese il soprascritto partito, il quale fu pericolosissimo, talmente che Roma stette tutta dubbia e sollevata infino a tanto che vennono le nuove della rotta di Asdrubale. Ed essendo poi domandato Claudio, per quale cagione avesse preso s pericoloso partito, dove sanza una estrema necessit egli aveva giucato quasi la libert di Roma; rispose che lo aveva fatto perch sapeva che, se gli riusciva, riacquistava quella gloria che si aveva perduta in Ispagna; e se non gli riusciva, e che questo suo partito avesse avuto contrario fine, sapeva come e' si vendicava contro a quella citt ed a quegli cittadini che lo avevano tanto ingratamente ed indiscretamente offeso. E quando queste passioni di tali offese possono tanto in uno cittadino romano, e in quegli tempi che Roma ancora era incorrotta, si debbe pensare quanto elle possano in uno cittadino d'un'altra citt che non sia fatta come era allora quella. E perch a simili disordini che nascano nelle republiche non si pu dare certo rimedio, ne seguita che gli impossibile ordinare una republica perpetua, perch per mille inopinate vie si causa la sua rovina.

 

 

Capitolo 18

Nessuna cosa pi degna d'uno capitano,

che presentire i partiti del nimico.

 

Diceva Epaminonda tebano, nessuna cosa essere pi necessaria e pi utile ad uno capitano, che conoscere le diliberazioni e' partiti del nimico. E perch tale cognizione difficile, merita tanto pi laude quello che adopera in modo che le coniettura. E non tanto difficile intendere i disegni del nimico, ch'egli qualche volta difficile intendere le azioni sue; e non tanto le azioni che per lui si fanno discosto, quanto le presenti e le propinque. Perch molte volte accaduto che, sendo durata una zuffa infino a notte, chi ha vinto crede avere perduto, e chi ha perduto crede avere vinto. Il quale errore ha fatto diliberare cose contrarie alla salute di colui che ha diliberato: come intervenne a Bruto e Cassio, i quali per questo errore perderono la guerra; perch, avendo vinto Bruto dal corno suo, credette Cassio, che aveva perduto, che tutto lo esercito fusse rotto; e disperatosi, per questo errore, della salute, ammazz s stesso. Ne' nostri tempi, nella giornata che fece in Lombardia, a Santa Cecilia, Francesco re di Francia, con i Svizzeri, sopravvenendo la notte, credettero, quella parte de' Svizzeri che erano rimasti interi, avere vinto, non sappiendo di quegli che erano stati rotti e morti: il quale errore fece che loro medesimi non si salvarono, aspettando di ricombattere la mattina con tanto loro disavantaggio; e fecero anche errare, e per tale errore presso che rovinare, lo esercito del Papa e di Ispagna, il quale, in su la falsa nuova della vittoria, pass il Po, e, se procedeva troppo innanzi, restava prigione de' Franciosi che erano vittoriosi.

Questo simile errore occorse ne' campi romani e in quegli degli Equi. Dove, sendo Sempronio consolo con lo esercito allo incontro degl'inimici, ed appiccandosi la zuffa, si travagli quella giornata infino a sera, con varia fortuna dell'uno e dell'altro: e venuta la notte, sendo l'uno e l'altro esercito mezzo rotto, non ritorn alcuno di loro ne' suoi alloggiamenti; anzi ciascuno si ritrasse ne' prossimi colli, dove credevano essere pi sicuri; e lo esercito romano si divise in due parti: l'una ne and col Console; l'altra, con uno Tempanio centurione, per la virt del quale lo esercito romano quel giorno non era stato rotto interamente. Venuta la mattina, il Consolo romano, sanza intendere altro de' nimici, si tir verso Roma; il simile fece lo esercito degli Equi: perch ciascuno di questi credeva che il nimico avesse vinto, e per ciascuno si ritrasse sanza curare di lasciare i suoi alloggiamenti in preda. Accadde che Tempanio, ch'era con il resto dello esercito romano, ritirandosi ancora esso, intese, da certi feriti degli Equi, come i capitani loro s'erano partiti, ed avevano abbandonati gli alloggiamenti: donde che egli, in su questa nuova, se n'entr negli alloggiamenti romani, e salvogli; e dipoi saccheggi quegli degli Equi, e se ne torn a Roma vittorioso. La quale vittoria come si vede, consist solo in chi prima di loro intese i disordini del nimico. Dove si debbe notare, come e' pu spesso occorrere che due eserciti, che siano a fronte l'uno dell'altro, siano nel medesimo disordine, e patischino le medesime necessit; e che quello resti poi vincitore che il primo ad intendere le necessit dello altro.

Io voglio dare di questo uno esemplo domestico e moderno. Nel 1498, quando i Fiorentini avevano uno esercito grosso in quel di Pisa, e stringevano forte quella citt; della quale avendo i Viniziani presa la protezione, non veggendo altro modo a salvarla, diliberarono di divertire quella guerra, assaltando da un'altra banda il dominio di Firenze; e, fatto uno esercito potente, entrarono per la Val di Lamona, ed occuparono il borgo di Marradi, ed assediarono la rocca di Castiglione, che in sul colle di sopra. Il che sentendo i Fiorentini, diliberarono soccorrere Marradi, e non diminuire le forze avevano in quel di Pisa; e fatte nuove fanterie, ed ordinate nuove genti a cavallo, le mandarono a quella volta: delle quali ne furono capi Iacopo IV d'Appiano, signore di Piombino, ed il conte Rinuccio da Marciano. Sendosi adunque, condotte queste genti in su il colle sopra Marradi, si levarono i nimici d'intorno a Castiglione, e ridussersi tutti nel borgo. Ed essendo stato l'uno e l'altro di questi due eserciti a fronte qualche giorno, pativa l'uno e l'altro assai e di vettovaglie e d'ogni altra cosa necessaria: e non avendo ardire l'uno d'affrontare l'altro, n sappiendo i disordini l'uno dell'altro, deliberarono in una sera medesima l'uno e l'altro di levare gli alloggiamenti la mattina vegnente, e ritirarsi in dietro; il Viniziano verso Bersighella e Faenza, il Fiorentino verso Casaglia e il Mugello. Venuta adunque la mattina, ed avendo ciascuno de' campi incominciato ad avviare i suoi impedimenti; a caso una donna si part del borgo di Marradi, e venne verso il campo fiorentino, sicura per la vecchiezza e per la povert, desiderosa di vedere certi suoi che erano in quel campo: dalla quale intendendo i capitani delle genti fiorentine, come il campo viniziano partiva, si fecero, in su questa nuova, gagliardi; e mutato consiglio, come se gli avessono disalloggiati i nimici, ne andarono sopra di loro, e scrissero a Firenze avergli ributtati e vinta la guerra. La quale vittoria non nacque da altro che dallo avere inteso prima dei nimici come e' se n'andavano: la quale notizia, se fusse prima venuta dall'altra parte, arebbe fatto contro a' nostri il medesimo effetto.

 

 

Capitolo 19

Se a reggere una moltitudine pi necessario l'ossequio che la pena.

 

Era la Republica romana sollevata per le inimicizie de' nobili e de' plebei: nondimeno, soprastando loro la guerra, mandarono fuori con gli eserciti Quinzio ed Appio Claudio. Appio, per essere crudele e rozzo nel comandare, fu male ubidito da' suoi, tanto che quasi rotto si fugg della sua provincia; Quinzio, per essere benigno e di umano ingegno ebbe i suoi soldati ubbidienti, e riportonne la vittoria. Donde e' pare che e' sia meglio, a governare una moltitudine, essere umano che superbo, pietoso che crudele. Nondimeno, Cornelio Tacito, al quale molti altri scrittori acconsentano in una sua sentenza conchiude il contrario, quando ait: "In multitudine regenda plus poena quam obsequium valet". E considerando come si possa salvare l'una e l'altra di queste opinioni dico: o che tu hai a reggere uomini che ti sono per l'ordinario compagni, o uomini che ti sono sempre suggetti. Quando ti sono compagni, non si pu interamente usare la pena, n quella severit di che ragiona Cornelio; e perch la plebe romana aveva in Roma equale imperio con la Nobilit, non poteva uno, che ne diventava principe a tempo, con crudelt e rozzezza maneggiarla. E molte volte si vide che migliore frutto fecero i capitani romani che si facevano amare dagli eserciti, e che con ossequio gli maneggiavano, che quegli che si facevano istraordinariamente temere; se gi e' non erano accompagnati da una eccessiva virt, come fu Manlio Torquato. Ma chi comanda a' sudditi, de' quali ragiona Cornelio, acciocch non doventino insolenti, e che per troppa tua facilit non ti calpestino, debbe volgersi pi tosto alla pena che all'ossequio. Ma questa anche debbe essere in modo moderata, che si fugga l'odio; perch farsi odiare non torn mai bene ad alcuno principe. Il modo del fuggirlo lasciare stare la roba de' sudditi: perch del sangue, quando non vi sia sotto ascosa la rapina, nessuno principe ne desideroso, se non necessitato, e questa necessit viene rade volte; ma, sendovi mescolata la rapina viene sempre, n mancano mai le cagioni ed il desiderio di spargerlo; come in altro trattato sopra questa materia si largamente discorso. Merit adunque, pi laude Quinzio che Appio, e la sentenza di Cornelio, dentro ai termini suoi, e non ne' casi osservati di Appio, merita d'essere approvata.

E perch noi abbiamo parlato della pena e dell'ossequio non mi pare superfluo mostrare, come uno esemplo di umanit pot appresso i Falisci pi che l'armi.

 

 

Capitolo 20

Uno esemplo di umanit appresso i falisci potette pi che ogni forza romana.

 

Essendo Cammillo con lo esercito intorno alla citt de' Falisci, e quella assediando, uno maestro di scuola de' pi nobili fanciulli di quella citt, pensando di gratificarsi Cammillo ed il popolo romano, sotto colore di esercizio uscendo con quegli fuori della terra, gli condusse tutti nel campo innanzi a Cammillo, e presentandogli, disse, come, mediante loro quella terra si darebbe nelle sue mani. Il quale presente non solamente non fu accettato da Cammillo; ma, fatto spogliare quel maestro, e legatogli le mani di dietro, e dato a ciascuno di quegli fanciulli una verga in mano, lo fece da quegli con di molte battiture accompagnare nella terra. La quale cosa intesa da quegli cittadini, piacque tanto loro la umanit ed integrit di Cammillo, che, sanza volere pi difendersi, diliberarono di darli la terra. Dove da considerare, con questo vero esemplo, quanto qualche volta possa pi negli animi degli uomini uno atto umano e pieno di carit, che uno atto feroce e violento; e come molte volte quelle provincie e quelle citt che le armi, gl'instrumenti bellici ed ogni altra umana forza non ha potuto aprire, uno esemplo di umanit e di piat, di castit o di liberalit, ha aperte. Di che ne sono nelle istorie, oltre a questo, molti altri esempli. E vedesi come l'armi romane non potevano cacciare Pirro d'Italia, e ne lo cacci la liberalit di Fabrizio, quando gli manifest l'offerta che aveva fatta ai Romani quello suo familiare, di avvelenarlo. Vedesi ancora, come a Scipione Affricano non dette tanta riputazione in Ispagna la espugnazione di Cartagine Nuova, quanto gli dette quello esemplo di castit, di avere renduto la moglie, giovane, bella, ed intatta al suo marito; la fama della quale azione gli fece amica tutta la Ispagna. Vedesi ancora, questa parte quanto la sia desiderata da' popoli negli uomini grandi, e quanto sia laudata dagli scrittori; e da quegli che descrivano la vita de' principi, e da quegli che ordinano come ei debbano vivere. Intra i quali Senofonte si affatica assai in dimostrare quanti onori, quante vittorie, quanta buona fama arrecasse a Ciro lo essere umano ed affabile, e non dare alcuno esemplo di s, n di superbo, n di crudele, n di lussurioso n di nessuno altro vizio che macchi la vita degli uomini. Pure nondimeno, veggendo Annibale, con modi contrari a questi, avere conseguito gran fama e gran vittorie, mi pare da discorrere, nel seguente capitolo, donde questo nasca.

 

 

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1998 - by prof. Giuseppe Bonghi

data ultima modifica: 03 luglio, 2004